A vent’anni dall’11 settembre l’attacco dell’Isis a Kabul

Gli scenari per un nuovo Afghanistan e la lotta al Jihad globale.

di Maurizio Delli Santi * –

L’attacco suicida di Kabul e la “sconfitta dell’occidente”: un nuovo 11 settembre?
La comunità internazionale è di fatto ripiombata nello sgomento dell’11 settembre di fronte alla conferma ufficiale che gli attacchi suicidi di Kabul, che hanno causato 200 vittime tra cui 13 marines, sono stati compiuti dai miliziani dell’Isis del Khorasan. Lo sconforto è stato attenuato dall’annuncio della immediata reazione degli Stati Uniti che con un attacco di droni armati, i micidiali “missili ninja”, AGM-114R9X, versioni dell’Helfire (vortici di lame che dovrebbero limitare i danni collaterali, ma i droni hanno investito anche vittime civili), sono stati annientati i principali “pianificatori” degli attacchi.
Rimangono beninteso la paura per gli scenari futuri e la grande amarezza per quella che è stata definita la “sconfitta dell’occidente” in Afghanistan, su cui ci si è accaniti nell’attribuire le principali responsabilità agli Stati Uniti, che in vent’anni hanno avuto oltre 2400 vittime tra i militari e sostenuto il costo di oltre 2mila miliardi di dollari, proprio quando la middle class americana collassava, mentre occorrerebbe guardare anche a quelle della intera comunità internazionale sotto vari profili, non ultimi quelli delle ancora incerte e divergenti decisioni sulle cose da fare, che invece richiederebbero ferma condivisione e tempestività.
Ma partiamo con ordine, calando il significato di questo attacco terroristico in un’analisi di contesto sufficientemente articolata per valutare con realismo politico le prospettive che si vanno prefigurando, analizzando in particolare i vari attori che compaiono sullo scenario afghano. E certamente primo fra questi è riemerso minaccioso l’Isis.

L’Isis-K e la guerra ai talebani.
L’Isis-K, l’Islamic State Khorasan Province o Iskp, conterebbe circa un paio di migliaia di terroristi – tra cui figurerebbero ex talebani, elementi allontanatisi dalle forze governative arrese ed anche pakistani – e sembra perseguire l’idea di una Provincia del Califfato nel “Grande Khorasan”, un’area che storicamente include anche territori del Pakistan, dell’Iran e delle vicine repubbliche asiatiche ex sovietiche. L’Iskp è pienamente inserito nel network dell’Isis che persegue il disegno del Califfato globale e la leadership del jihadismo ad oltranza contro l’occidente. In atto la leadership dell’Isis-K sarebbe stata affidata a Shahab al Muhair, alias Sanaullah, un arabo probabilmente siriano, scelto da quello che è ritenuto essere a capo dell’Isis di Siria e Iraq, il califfo successore di al-Baghdadi, l’irakeno Abu Ibrahim al Hashimi Qurashi. La scelta di un siriano o comunque di un leader vicino e al vertice, sarebbe indicativa di una scelta strategica dell’Isis di inserirsi più energicamente nel caos afghano dando maggior peso all’Isis-K. Secondo fonti delle Nazioni Unite, l’Isis-K nel 2021 ha compiuto 77 attacchi, mentre nel 2020 ne ha compiuti 115 e nel 2019 572, prevalentemente contro le forze governative piuttosto che contro gli americani. Fonti americane parlano anche di un gruppo terrorista che stenterebbe comunque ad affermarsi, tanto che è dovuto ricorrere ad attacchi suicidi, anche perché tra il 2015 e il 2019 avrebbero perso ben 548 comandanti, uccisi e catturati.
Nello scenario del terrorismo va comunque ricordato che in Afghanistan risultano censiti almeno 11 gruppi combattenti, che comprendono oltre all’ Isis del Khorasan, anche al-Qaeda e nuclei dei diversi gruppi etnici delle contigue ex repubbliche sovietiche, nonché alcuni riconducibili agli afghani sciiti.
Sino agli attentati di Kabul non è stata abbastanza compresa la profonda frattura, nonostante le comuni matrici sunnite, che divide i talebani e l’Isis, e quest’ultimo ora si vede minacciato da una possibile supremazia dei talebani sulla umma islamica, come sembra emergere dai numerosi messaggi di sostegno che agli studenti di Kabul sono pervenuti non solo da Al Qaeda ma anche dai gruppi islamisti dell’ indo-pacifico come Jaemaah Islamiya e dallo stesso Partito Islamico della Malaysia.
Al-Naba, organo ufficiale dell’Isis, è arrivato quindi ad accusare i talebani di essere “agenti degli Stati Uniti”, una sorta di quinta colonna del nemico occidente, e che con gli accordi di Doha in realtà gli studenti barbuti avrebbero concordato segretamente con gli americani la conquista del paese. Un argomento forte di questa tesi è rappresentato dalla circostanza che uno dei principali capi politici dei talebani, il mullah Baradar, dopo aver trascorso otto anni di prigione in Pakistan è stato liberato su diretta richiesta degli Stati Uniti affinché conducesse la trattativa di Doha. Una differenza ideologica dei due movimenti si coglie anche nella stessa distinzione delle nozioni di Califfato dell’Isis, che prefigura una estensione ultranazionale, e di Emirato dei talebani, che definisce un ambito nazionale più specifico. La contrapposizione tra talebani e miliziani dell’Isis è poi emersa in maniera netta il 15 agosto durante la presa di Kabul quando gli studenti coranici, presa d’assalto la prigione di Pul-i-Charki, hanno liberato 5mila reclusi giustiziandone solo uno, Abu Omar Khorasari, uno dei capi dell’Isis afghano catturato un anno fa dalla polizia del governo Ghani. Gli attacchi dell’Iskp nell’area dell’aeroporto di Kabul sono dunque rivolti simbolicamente contro l’intesa raggiunta tra Stati Uniti e talebani.

Il ruolo di al-Qaeda, i talebani e gli scenari per l’Afghanistan.
È opportuno fare anche un punto sui rapporti dei talebani con al-Qaeda, che risalgono ai tempi del sostegno concesso a Bin Laden. Gilles Kepel ha letto questo legame non già come piena adesione al jihad ad oltranza contro l’occidente, ma come fine “interno” per sfruttarne la minaccia al fine di ottenere il governo dell’Afghanistan allontanando gli “invasori” occidentali. Al-Qaeda rappresenta comunque un gruppo molto esteso e presente tra le varie componenti etniche afghane e certamente deve essere ben chiaro che un eventuale isolamento dei talebani, in sostanza una chiusura della comunità internazionale di fronte ad una qualche forma di loro riconoscimento, non necessariamente con riferimento al nuovo “Emirato islamico”, ovvero una scelta volta a sostenere i movimenti di resistenza anti-talebani potrebbero indurre gli studenti barbuti a rinnovare l’alleanza con al-Qaeda e quindi a sostenere direttamente il jihad globale.
In proposito, va anche dato peso alla postura che il movimento dei talebani sembra aver assunto, pur tra evidenti contraddizioni e giustificate preoccupazioni per la tutela dei diritti, rispetto al modello storico integralista da loro già attuato in Afghanistan dal 1996 al 2001, anno nel quale gli americani decisero di occupare il paese per aggredire al-Qaeda di Bin Laden che aveva lanciato l’attacco alle Torri gemelle.
Occorre ammettere che i talebani di oggi appaiono molto cambiati, ricercano con evidenza una riconoscibilità internazionale, hanno assunto la configurazione di un movimento di indipendenza, con portavoci ufficiali che usano peraltro modelli di comunicazione propriamente occidentali aperti ai contatti con la stampa internazionale, ed adoperano you tube e twetter, tutti indizi di un approccio ideologico profondamente rinnovato rispetto alle chiusure oscurantiste del precedente regime. Diversi analisti sottolineano l’impostazione ancora integralista degli attuali capi talebani, Haibatullah Akundzada e Abdul Ghani Baradar, ma anche la formazione in scuole e università occidentali di altri più giovani leader, che sembrano aver promosso un dibattito interno su una linea più moderata e realista. Ne è un esempio la posizione annunciata da uno dei portavoce Suhail Shaheen secondo cui i talebani sarebbero aperti a nuovi diritti per le donne tra cui l’accesso alla istruzione universitaria e la possibilità di indossare l’hijab invece che il burqa.
Sotto questo profilo i talebani potrebbero aver maturato anche la consapevolezza che il nuovo assetto dell’Afghanistan, in cui potranno trovare rappresentanza, avrà necessità di avere il sostegno della comunità internazionale e di dare spazio in qualche misura almeno a buona parte di tutte queste componenti per ottenerne il consenso, a meno di non ritrovarsi di fronte ad uno scenario di alta instabilità interna, se non di vera e propria guerra civile. Su questa prospettiva la comunità internazionale potrà quindi promuovere un’alternativa credibile di stabilità, anche con le importanti leve del sostegno economico, richiedendo con fermezza che siano meglio tutelati i diritti delle donne e degli oppositori, e che si prendano le distanze da ogni intesa con i gruppi terroristi e dai sistemi illeciti del contrabbando e del narcotraffico che li alimenta. E a dire il vero può essere d’esempio quanto già accaduto con la Cina: questa ha di fatto già allacciato intese con i talebani, i quali in cambio della riconoscibilità internazionale ricevuta hanno accettato di non sostenere le frangi terroriste e separatiste degli uiguri musulmani che sui comuni confini rappresentano una minaccia per la grande potenza asiatica.

Conclusioni: un G20 inclusivo per il nuovo Afghanistan e la lotta al jihad globale.
Allo stato attuale, dunque, lo scenario ritenuto più probabile, se la comunità internazionale non commette errori, è che dopo gli attacchi di Kabul i talebani reagiscano duramente contro l’Iskp e gli altri gruppi oppositori da cui si sentono minacciati, a cominciare dai mujaheddin del Panjshir con cui stanno cercando di negoziare, ma potrebbero anche convincersi che per ottenere la stabilità nell’area hanno sempre più bisogno del sostegno della comunità internazionale, che a questo punto potrà chiedere maggiori garanzie per il sistema dei diritti e i corridoi umanitari.
La conferma di tale prospettiva giunge dalla richiesta dei talebani rivolta alle capitali europee di mantenere le loro ambasciate a Kabul e alla Turchia di intervenire a loro sostegno nel controllo dell’aeroporto di Kabul. È evidente che su questa scelta ha inciso l’affinità con un paese musulmano, prevalentemente sunnita, ma anche la ragionevole considerazione che la Turchia è un Paese che, pur considerando le mire egemoniche di Erdogan, può esprimere una forza militare efficiente, peraltro prontamente disponibile e formalmente inserita nella alleanza euroatlantica.
Europei e americani potranno storcere il naso, ma considerata la situazione è forse un bene che qualcuno scenda in campo per contrastare la minaccia del terrorismo che potrebbe anche deflagrare in una rincorsa alla leadership jihadista da parte dei vari gruppi presenti in Afghanistan. E occorrerà vedere anche cosa potranno fare Russia, Cina e India, che hanno tutto l’interesse, specie per gli approvvigionamenti energetici, i flussi commerciali e le derive separatiste interne, a mitigare l’area di instabilità sul quadrante afghano. Nel frattempo gli Stati Uniti dovranno al proprio interno ricompattarsi per riprendersi dalla catastrofe umanitaria e strategica, e pensare come reagire incisivamente per difendersi da possibili attacchi del jihad globale. E questo mentre l’Ue dovrà preoccuparsi anch’essa della minaccia terrorista ma pure di come gestire la pressione migratoria. Non va dimenticato infatti che l’Afghanistan conta oltre 38 milioni di abitanti, di cui saranno in molti a sentirsi minacciati dalla deriva oscurantista o dalla guerra permanente.
In sostanza, ancora una volta la situazione conferma che molto probabilmente il polo occidentale Ue-Stati Uniti non potrà gestire la crisi da solo, ma ha necessità di confrontarsi con Russia, Cina, India, Turchia ed anche con Pakistan, Iran, Arabia Saudita e Qatar, che hanno possibilità di influenzare le scelte sul nuovo Afghanistan: dopo l’intervento delle Nazioni Unite che ha potuto soltanto richiamare l’attenzione sulla tutela dei diritti della popolazione, ritorna impellente l’idea di un G20 allargato, in cui dovrà essere protagonista il multilateralismo per gestire in primo luogo la sfida di un nuovo jihad globale, la minaccia di una crisi migratoria epocale e pensare concretamente al nuovo assetto da dare all’Afghanistan.

* Membro dell’International Law Association, docente a contratto in diritto internazionale penale e controterrorismo Unicusano, autore di “L’ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo”, Aracne.