Afghanistan 2020. La fine di un’era e l’inizio di un’altra

Il ritiro statunitense apre un nuovo scenario. Una nuova guerra si prospetta all’orizzonte. Le ambizioni turche nel paese. Il triangolo geopolitico Cina-Pakistan-India. Le pressioni sull’Iran. La scelta-scommessa americana.

di Marco Corno

E’ ufficiale, gli Stati Uniti dopo vent’anni di impegno militare in Afghanistan si ritirano definitivamente dal paese. L’amministrazione Biden pone fine, seguendo la linea politica precedentemente intrapresa da Obama e mantenuta da Trump, alla più lunga campagna militare oltre confine della storia statunitense durata vent’anni (2001-2021) e lasciandosi “alle spalle” un logorante fardello da cui Washington ne esce sconfitta e indebolita. La decisione di concludere il ritiro delle truppe l’11 settembre 2021 è una scelta simbolica nel suo aspetto comunicativo ma sostanziale dal punto di vista storico-geopolitico dato che segna la fine della prima fase dell’egemonia americana mondo, iniziata nel 1991 e oramai in procinto di concludersi.

Anche questa volta probabilmente la fine di una guerra in Afghanistan ne determinerà l’inizio di un’altra. I talebani controllano praticamente quasi tutto il paese e inevitabilmente tale stato di cose aprirà nuovi scenari geopolitici nel cuore dell’Eurasia tutt’altro che marginali.
I prodromi di una nuova guerra con i principali “imperi eurasiatici” coinvolti si stanno già manifestando.
La Turchia è l’unico membro dell’Alleanza Atlantica che rimarrà con truppe militari sul suolo afghano. La scelta tattica di Ankara rientra nel grande progetto pan-islamista turco ideato dal professore universitario ed ex ministro degli esteri Ahmet Davutoglu che ambisce a creare una sfera di influenza turca anche nel heartland eurasiatico creando un link geopolitico tra il popolo turco e le popolazioni della Mongolia, la vera core-area di origine dei turchi e di cui l’Afghanistan è un tassello importante.
La presenza turca e il caos afghano inaspriranno le scelte di politica estera dei paesi limitrofi per far fronte alle velleità imperiali turche e allo sviluppo degli eventi nella regione.
Prima fra tutti la Cina. Pechino teme che il ritiro americano provochi una forte destabilizzazione e la proliferazione di reti terroristiche islamiche che potrebbero infiltrarsi in Cina, sebbene il confine con l’Afghanistan sia relativamente limitato, alimentando le aspirazioni indipendentiste degli uiguri dello Xinjiang, popolazioni mussulmane-turcofone che Erdogan vorrebbe rientrassero nella sfera di influenza turca.
Nonostante i cospicui accordi economici finanziati tra Turchia e Cina, quest’ultima considera Ankara una delle principali minacce alla propria sicurezza ed integrità territoriale, cosciente delle ambizioni turche di arrivare alle steppe euroasiatiche passando inevitabilmente per lo Xinjiang.
L’assillo cinese è che si possa aprire un ulteriore fronte di tensione che Xi Jinping vorrebbe non avvenisse al fine di concentrare gli sforzi geopolitici cinesi unicamente nel Mar Cinese Meridionale.

(Foto: militaryaerospace.com).
Le conseguenze del ritiro si ripercuotono anche sulla statura geopolitica di altre tre potenze regionali tout court: Iran, India e Pakistan.
L’Iran ha da sempre percepito i talebani come una minaccia alla propria sicurezza nazionale tant’è che dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha supportato l’intervento statunitense in Afghanistan come una possibile soluzione al pericolo talebano, alleandosi con Washington e addestrando le truppe dell’Alleanza del Nord.
Adesso con il ritiro si creerà un nuovo vuoto geopolitico che Teheran sarà costretta a colmare. La nomina del conservatore Raisi a presidente della Repubblica Islamica è influenzata non solo da questioni interne al paese ma anche da esigenze puramente geopolitiche. La ritirata statunitense non è solo in funzione anti-cinese ma anche in funzione anti-iraniana in modo da costringere la Repubblica Islamica a difendersi su più fronti contemporaneamente, pressandola e indebolendola al fine di ottenere concessioni sul piano negoziale degli accordi sul nucleare.
Sul futuro dell’Afghanistan un ruolo fondamentale lo avrà il Pakistan. Dagli anni novanta del XX secolo il Pakistan persegue tramite la formazione e il supporto dei talebani il sogno geopolitico del “grande Pakistan” che ambisce a creare un grande stato pakistano formato dai territori meridionali dell’Afghanistan abitati dall’etnia dei pashtun. Ora che il paese viene abbandonato a sé stesso, Islamabad vede la possibilità di realizzare le sue ambizioni geopolitiche. Il regime pakistano utilizza la presenza talebana come retroterra strategico nelle controversie con l’India sia a livello religioso sia a livello territoriale nella querelle sul Kashmir.
L’India in occasione dei negoziati di Doha tra gli USA e la delegazione talebana lo scorso anno ha espresso ufficialmente il suo disappunto sostenendo che una legittimazione dell’organizzazione avrebbe creato un “corridoio jihadista” esteso dall’Afghanistan al Kashmir minacciando la stabilità dello stato indiano.
Dietro a questa presa di posizione si cela anche la rivalità con la Cina. New Delhi teme che un rafforzamento di Islamabad aumenti l’accerchiamento cinese nei suoi confronti e rafforzi lo status geopolitico di Pechino qualora riesca a gestire il caos afghano a proprio vantaggio sfruttando il suo leverage economico nei confronti del suo cliente pakistano (soprannominato la ZES cinese proprio perché ormai l’intero paese è una zona economica esclusiva cinese più che uno stato).
Proprio su tale delicato dossier, New Delhi potrebbe prendere una decisione imprevista dal deep state americano: aprire un dialogo proficuo con la Cina per la stabilità di Kabul, ottenere garanzie sul modus operandi pakistano e cooperare sulla prevenzione al terrorismo, comune interesse sia di Xi Jinping sia di Modi.
Forse una simile ipotesi è il peggior rischio che gli Stati Uniti corrono con la ritirata dall’Afghanistan perché potrebbe privare Washington di un importante alleato strategico come quello indiano finendo per ridurre invece che allargare il contenimento della Cina.

Il ritiro statunitense non è il presagio del disinteresse americano dal mondo ma al contrario parte integrante del progetto strategico Pivot to Asia inaugurato dall’amministrazione Obama, funzionale a concentrare le forze americane nello spazio indo-pacifico abbandonando gli scenari considerati secondari.
Con la fine della campagna militare gli USA continuano a mantenere “uno stivale” nel paese grazie alla presenza turca, deus ex machina del contemporaneo contenimento dell’Iran e della Cina.
Kabul post-USA rischia di diventare un nuovo teatro di guerra, questa volta in uno scenario internazionale profondamente cambiato con grandi potenze eurasiatiche determinate ad ampliare la propria sfera di influenza.
La ritirata americana è una scelta-scommessa che presenta molti rischi.