Afghanistan. Perchè ci siamo arrivati

di Gabriele Di Leo

Le immagini provenienti dall’Afghanistan ci hanno riportato indietro di 20 anni, consegnando alle nostre memorie una serie di quesiti irrisolti riassumibili in un’unica domanda: come e perché siamo arrivati a questo punto? Il sentimento odierno più comune è l’indignazione: eppure l’invio delle truppe in Afghanistan nel 2001 era percepito diversamente. Allora, si parlava di “guerra al terrorismo” in seguito agli attacchi dell’11 settembre: persino in Italia l’invio delle truppe fu votato in maniera quasi plebiscitaria alla Camera e al Senato.
La problematica relativa alla presenza dei talebani (aderenti al movimento integralista islamico, nda.) sul territorio è nota già da tempo. L’amministrazione Obama difatti nel 2009 ha mirato ad incrementare la portata del contingente americano, proprio per scoraggiare la riorganizzazione dei talebani. Quest’ultimi avevano subito un duro colpo sin dai primi istanti della missione avviata nel 2001, dovendosi inizialmente ritirare in Pakistan, Stato alleato. Da quel momento in poi la guerra è divenuta asimmetrica, non conducendo però agli obiettivi dichiarati e ipotizzati: le difficili condizioni del territorio afghano-pakistano e il continuo reclutamento da parte dei talebani, hanno dapprima rallentato il conflitto, facendolo ricadere sui civili, e successivamente hanno aperto le porte alla crisi politica delle elezioni del 2014. Ghani e Abdullah, dopo una lunga mediazione statunitense e dopo aver affermato a più riprese di non voler riconoscere l’eventuale vittoria dell’avversario, hanno accettato l’instaurazione di una diarchia, che li ha visti condividere i poteri di governo e presidenza. Ciò non ha fatto altro che incentivare il dilagare di fenomeni quali la corruzione, fortemente presente tra le fila dell’esercito afghano, addestrato e armato da elementi dell’esercito statunitense. Conseguire una vittoria, con le circostanze maturate in vent’anni di occupazione, sarebbe stato impossibile. Questa consapevolezza, congiuntamente alla necessità di trovare un argomento forte in campagna elettorale, ha condotto Donald Trump agli accordi di Doha del 2020. Una exit strategy, di fatto una resa, che spianato la strada alle avanzate dei talebani, oggi riportate su tutti i media.
Oggi ci resta ben poco dell’Afghanistan: i piccoli progressi in termini di libertà civili, emancipazione femminile, prosperità economica e democrazia rischiano di essere spazzati via. Le uniche ambasciate aperte in questi giorni in territorio afghano sono quelle di Pakistan, Russia e Cina. Ciò è estremamente esemplificativo su chi trarrà nei prossimi mesi i maggiori benefici da quest’evidente disfatta geopolitica, militare e strategica dell’occidente.