di Francesco Giappichini –
«Why are we having all these people from shithole countries come here?». Ovvero, «Perché tutte queste persone provenienti da Paesi di merda vengono qui?». Il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald John Trump, pronunciò queste parole nel gennaio 2018, quando era impegnato a discutere un piano per limitare la riunificazione familiare degli stranieri, e il loro accesso alla Diversity visa lottery program, (più nota in Italia come la Lotteria della Green card). L’allora inquilino della Casa Bianca si riferiva sia alle nazioni africane genericamente intese, sia a El Salvador e Haiti; contrapponeva questi stati del sud globale alla Norvegia, spiegando che gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto accogliere i cittadini norvegesi.
Tuttavia la gaffe più grave fu commessa nel settembre ’17, quando inventò un nuovo Stato africano, il Nambia: una vicenda sviscerata da questa stessa testata nell’articolo “Usa. Trump inventa un nuovo Paese africano. Il Nambia”, di Vanessa Tomassini. La vittoria del candidato repubblicano ha indotto i media a rispolverare queste e analoghe dichiarazioni, che testimonierebbero lo scarso interesse, e il disprezzo misto a ignoranza geografica, del magnate newyorkese per il Continente nero. Che come si può supporre, nel corso del primo mandato non ebbe mai a visitare. Ripercorrerle tutte è però impossibile, dovendo qui analizzare il futuro prossimo delle relazioni tra Washington e l’Africa, e gli scenari geopolitici che si designano per il Continente «berceau de l’humanité», “culla dell’umanità”.
Andiamo con ordine, cominciando da una premessa. Il primo mandato trumpiano è stato senz’altro segnato da una stretta migratoria e da un sensibile taglio dei fondi per la cooperazione internazionale, che di certo non hanno giovato alle relazioni tra le due aree. E inoltre il suo attuale programma politico ha sostanzialmente trascurato il continente, peraltro dimenticato nella campagna elettorale di qualsiasi contendente. Tuttavia la prima amministrazione Trump, nel 2018, ha saputo creare progetti per favorire gli investimenti in Africa, che hanno avuto successo e sono tuttora operativi. Si tratta in primo luogo del Prosper Africa, un’iniziativa che aiuta le aziende statunitensi che puntano a investire in Africa.
E poi va segnalato lo United states international development finance corporation (Dfc). Questo istituto, che finanzia progetti di sviluppo in varie aree del mondo, afferma di aver investito in Africa, dalla sua fondazione, ben 10 miliardi di dollari. Analizzando i singoli settori della futura cooperazione, non si può che iniziare dalle relazioni economiche e dall’attuale politica commerciale del governo Biden. Ebbene, come sintetizzato dall’ex ministro dei Lavori pubblici della Liberia, Gyude Moore, l’amministrazione Biden di certo «ha lavorato duramente per dare l’impressione che l’Africa sia un partner importante e prezioso»; e tuttavia, nonostante i 22 miliardi dollari spesi, non si è riusciti a tradurre questo entusiasmo in accordi e partnership sostanziali.
Con la lodevole eccezione, va rimarcato, degli investimenti nel cosiddetto Corridoio di Lobito (Lobito corridor): un’arteria vitale per la crescita africana, in parte finanziata anche dal Piano Mattei. Più nello specifico, si tratta di una linea ferroviaria che attraversa Angola, Repubblica democratica del Congo e Zambia, e che sarà utilizzata per il trasporto di materie prime. E tuttavia molti analisti temono che il protezionismo auspicato da Trump, e promosso dallo slogan «America first», possa frenare scambi e investimenti. E soprattutto si paventa che possa affossare l’African growth and opportunity act (Agoa), l’Atto di crescita e opportunità per l’Africa. Il provvedimento unilaterale – emanato dal Congresso statunitense durante l’era Clinton, nel 2000 – prevede che a certe condizioni (come il rispetto dei diritti umani, della democrazia e dei principi dell’economia liberale) i Paesi dell’Africa subsahariana possano esportare certi prodotti negli Stati Uniti, a dazio zero.
Legittimi i timori: durante il precedente mandato Trump ha affermato che il Congresso non dovrebbe rinnovare (per i successivi 16 anni) questo programma, la cui scadenza è prevista nel 2025. Inoltre in campagna elettorale ha più volte declamato di voler imporre una tariffa universale del 10%, su tutti i prodotti fabbricati all’estero. Può però consolare gli africani la più realistica ammissione del Tycoon, ormai convintosi che il contrasto all’espansione strategica cinese in Africa, richiede il mantenimento di un certo livello di partnership. E poi, a fianco delle questioni commerciali, si staglia il capitolo delle donazioni e degli aiuti umanitari: nell’ultimo anno fiscale gli Stati Uniti hanno devoluto all’Africa tre miliardi e 700 milioni di dollari, confermandosi leader negli aiuti allo sviluppo per il Continente.
Anche su questo fronte emergono dei timori: la prima amministrazione Trump ha ripetutamente proposto di tagliare sul capitolo degli aiuti esteri, e solo l’intervento del Congresso riuscì a bloccare questi interventi. Nel prossimo quadriennio però i repubblicani dovrebbero avere la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, e la spending review trumpiana potrebbe non incontrare ostacoli. Magari colpendo anche il programma Pepfar (United states president’s emergency plan for acquired immunodeficiency syndrome relief), prorogato sino a marzo ’25: un piano, tra l’altro, osteggiato dai parlamentari repubblicani, perché a loro giudizio favorirebbe il ricorso ai servizi abortivi.
Anche la futura gestione della questione migratoria potrebbe generare inquietudini, del resto l’antico governo Trump dispose misure per ridurre gli ingressi da diversi Paesi africani, tra cui Nigeria, Eritrea, Sudan e Tanzania. I numeri non paiono tuttavia colossali: nel corso del biennio ’22 – ’23 i migranti africani registrati alla frontiera col Messico sarebbero circa 71 mila. Incertezza anche sulle questioni strategiche e militari. Da un lato molti analisti prefigurano una sorta di disimpegno nella regione, quale conseguenza di un approccio isolazionista. Tuttavia, anche in nome della nota imprevedibilità del presidente entrante, c’è chi pronostica uno scenario diverso: si rammenta quanto furono determinanti gli aiuti militari alla Nigeria per il contrasto a Boko Haram, ordinati dallo stesso Trump, e quanto invece fu netto il rifiuto dell’ex presidente Barack Obama a inviare armi, nonostante le pressioni della comunità nigeriana negli Stati Uniti. Last but not least va affrontata la questione della promozione dei diritti umani. A questo riguardo, gli analisti prevedono un approccio più improntato alla realpolitik, da parte del capo dello stato neoeletto. E si fa l’esempio dell’Etiopia, che fu estromessa dall’applicazione dell’Agoa per via della Guerra del Tigrè, ma la cui reintegrazione è propugnata con forza da Tibor Peter Nagy Junior, ovvero l’assistant secretary of state for African affairs del primo gabinetto di Donald Trump.