Ambiente: il G20 “di plastica”

di C. Alessandro Mauceri

Si sono appena conclusi i lavori del G20 ad Osaka, in Giappone. Argomenti caldi gli eventi di contorno, cene e regali istituzionali, tutti riportati con flemma e rigore nipponico nelle prime pagine del sito ufficiale dell’evento.
Eppure c’era grossa attesa per alcuni temi, tra cui l’ambiente e le misure per ridurre il consumo e i danni causati dalla plastica. “Ribadiamo che le misure per affrontare i rifiuti marini, in particolare i rifiuti di plastica marina e le microplastiche, devono essere presi a livello nazionale e internazionale da tutti i paesi in collaborazione con le parti interessate. Siamo determinati a prendere rapidamente adeguate azioni nazionali per la prevenzione e la loro importanza riduzione degli scarichi di rifiuti in plastica e microplastiche negli oceani”, erano le buone intenzioni. Alla fine sono state pronunciate le solite frasi di rito, “migliorare l’efficienza delle risorse attraverso politiche e approcci, come l’economia circolare, la gestione sostenibile dei materiali, contributo delle 3R (riduzione, riutilizzo, riciclaggio)” o “gestione sostenibile delle risorse”, o “visione globale comune” e perfino “noi miriamo a ridurre l’inquinamento aggiuntivo dei rifiuti marini di plastica a zero entro il 2050”.
Anche il ministro dell’Ambiente italiano Sergio Costa ha fatto la sua parte parlando della necessità di uscire dal “Plasticocene”.“È improcrastinabile definire una strategia planetaria comune con tempi certi affinché il pianeta esca definitivamente dall’età della plastica monouso”.
Peccato che, come sempre, i “numeri”, quelli veri dicano il contrario di quello che lascerebbero pensare le parole di molti politici. Tra queste e la realtà spesso c’è un oceano (di plastica) di differenza.
La verità è che oggi la plastica è il terzo materiale umano più diffuso sulla Terra con acciaio e cemento, e la su produzione continua a crescere a ritmi vertiginosi: secondo un rapporto del WWF, la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 ad oltre 300 milioni. Complessivamente, dalla metà dello scorso secolo ad oggi sarebbero stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica!
Come sempre poche le colpe dei paesi “arretrati” e molte le responsabilità dei paesi più sviluppati o “in via di sviluppo”: secondo l’UNEP il maggior produttore al mondo di rifiuti plastici è la Cina, ma se si considera la produzione pro-capite il primato spetta agli Stati Uniti, seguiti da Giappone e Unione Europea. Dall’altro lato del pianeta l’impatto degli “altri” paesi è decisamente inferiore: Africa e Medio Oriente, insieme, si fermano intorno al 7% e l’America Latina al 4%.
Plastica significa anche rifiuti. Ebbene in barba alle promesse e alle leggi adottate solo il 9% della plastica prodotta sarebbe stato in qualche modo riciclato: dalla metà del secolo scorso ad oggi, sarebbero finite nell’ambiente circa 6,3 miliardi di tonnellate di plastica, quasi una tonnellata di rifiuti di plastica per ogni abitante della Terra!. E di questi, ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate di plastica sarebbero finite in mare: secondo uno studio del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche apparso su “Nature Scientific Reports”, il Mar Mediterraneo starebbe diventando una sorta di “zuppa” di plastica. Continuando di questo passo nel 2025, ovvero ben prima della scadenza che si sono dati i leader del G20, tra una specialità culinaria giapponese a base di pesce e un intrattenimento, ci sarà una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesci. E nel 2050 negli oceani, sarà più la plastica che i pesci.
Ma l’aspetto più grave è che tutto questo sembrerebbe non interessare ai governi Un rapporto dell’UNEP ricorda che “sacchetti di plastica, articoli monouso e microsfere rappresentano le tre importanti fonti di inquinamento”. E se i primi sono regolamentati in poco più della metà dei paesi del pianeta (127 su 192), degli altri prodotti e dell’inquinamento che producono sembra non importare molto a chi parla di ambiente tra una cena di gala e l’altra. Per le microsfere di plastica, cioè particelle di dimensione inferiore o uguale a 5 mm che si trovano in molti prodotti di consumo come creme, dentifrici, prodotti per la pulizia, applicazioni medicali etc., e in diversi processi industriali come mezzi abrasivi, esistono restrizioni solo in 8 paesi su 192 (tra cui l’Italia), in altri 4 Paesi (Belgio, Brasile, India e Irlanda) esistono proposte di legge. Stessa cosa per le ormai famose plastiche monouso: secondo l’UNEP, solo in 27 Paesi esisterebbe un divieto sulla produzione, distribuzione, uso o vendita e importazione delle plastiche monouso.
Dietro la produzione e l’uso della plastica esiste un business miliardario legato a filo doppio con l’industria del petrolio e in particolare quella dello shale gas statunitense. “Poiché la produzione di combustibili fossili è altamente localizzata in aree specifiche, anche la fabbricazione di materie plastiche si concentra in specifiche regioni, in particolare nella costa del Golfo degli Stati Uniti”, si legge nel rapporto del Centro in un recente rapporto investigativo, intitolato Fueling Plastics.
Una previsione confermata dai miliardi di dollari di aiuti concessi per la produzione di plastiche di vario tipo; solo negli USA, dal 2010, sarebbero stati erogati aiuti per oltre 180 miliardi di dollari per nuove strutture di “cracking”, processo di scissione delle lunghe catene di molecole del petrolio in catene più piccole, e la produzione di monomeri plastici.
“Esiste una relazione profonda e pervasiva tra le compagnie petrolifere e del gas e le materie plastiche”, ha dichiarato Carroll Muffett, presidente del Center for International Environmental Law. “Potremmo essere bloccati in decenni di produzione di plastica espansa proprio nel momento in cui il mondo si sta rendendo conto che dovremmo usarla molto meno”.
Dopo aver letto questi dati sulla produzione di plastiche e dei loro rifiuti, non sono credibili le promesse sulla “plastica” e sull’ “ambiente” sentite al G20 di Osaka. Così come non erano credibili, negli anni passati, quelle fatte sulla riduzione delle emissioni di CO2 (da Kyoto a Parigi e oltre).