di Notizie Geopolitiche * –
Sono tutt’ora in un carcere degli Stati Uniti cinque cubani arrestati nel 1998 con l’accusa di spionaggio, condannati a pene che vanno dai quindici anni ai due ergastoli per una singola persona.
I “Cinque”, ormai noti con questo appellativo, sono Gerardo Heràndez Nordelo, oggi 47enne, sposato, laureato all’ Istituto di relazioni internazionali, caricaturista; Ramòn Labañino, 49 anni, sposato, tre figlie, laureato in Economia all’ università dell’Avana; Antonio Guerrero Rodriguez, 54 anni, ingegnere, poeta, due figli; Fernando Gonzàles Llort, 49 anni, laureato all’ Istituto di relazioni internazionali; René Gonzàles Sehwerert, 56 anni, sposato, due figlie, pilota e istruttore di volo. Si trovavano negli Stati Uniti per reperire prove sulle attività terroristiche che gruppi di oppositori al governo castrista, probabilmente sostenuti da Washington, continuavano (ormai da anni) a realizzare nell’isola caraibica arrivando ad uccidere oltre 3mila persone, a renderne invalide altre ed a causare ingenti danni materiali.
Fra le vittime vi sono stati cittadini comuni, come per esempio l’intera squadra di scherma cubana, perita nell’attentato all’aereo su cui era imbarcata, o addirittura stranieri, come è successo per l’italiano Fabio Di Celmo, ucciso nel 1997 da una bomba esplosa nel bar dell’albergo presso il quale era ospite.
Le prove raccolte dai “Cinque”, presentate nel 1998 dal governo de l’Avana al Dipartimento di Stato e all’Fbi in occasione di una riunione tenutasi proprio nell’isola caraibica, erano schiaccianti, inconfutabili, ma Washington, anziché fermare le azioni terroristiche, procedette all’arresto degli agenti cubani a Miami. Uno di loro è stato anche accusato di omicidio, per aver partecipato all’abbattimento di un aereo delle organizzazioni anticastriste che, nonostante i continui altolà delle autorità militari, continuava a sorvolare lo spazio aereo per rovesciare sopra Cuba volantini propagandistici antigovernativi.
Le sentenze di condanna hanno un sapore puramente politico, emesse, per assurdo, da una nazione che si dichiara in prima linea contro il terrorismo. Uno di loro, René González, è stato scarcerato 7 ottobre 2011, ma gli è stato imposto l’obbligo di rimanere negli Stati Uniti dove, tra l’altro, è costantemente a rischio di rappresaglia proprio da parte degli esuli cubani.
Notizie Geopolitiche ne ha voluto parlare con il Console generale di Cuba a Milano, Eduardo Vidal, il quale ha spiegato che “per comprendere la storia dei “Cinque”, bisogna tenere presenti le relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba: quando trionfò la Rivoluzione, il vecchio regime (di Batista, ndr.) scappò a Miami con l’appoggio del governo nordamericano, poiché la nuova Rivoluzione era a tutti gli effetti nazionalista, ossia si proponeva di mettere le risorse a disposizione del popolo. Negli anni precedenti questo genere di rivoluzione era avvenuta in quasi tutta l’America latina ed in tutti i casi c’era stato l’intervento armato del Nord America, come nel caso di Jacopo Arbenz Guzman in Guatemala, o in altri casi simili, dove ci fu un colpo di Stato o un intervento diretto. Questo è lo sfondo che incontrava la nuova Rivoluzione cubana, ossia un’opposizione nordamericana già scritta: sarebbe successo a Cuba ciò che era accaduto anche negli altri paesi. La differenza stava nel fatto che il governo nordamericano avrebbe agito, come poi fu fatto, su due canali: applicando “el bloqueo” (embargo) e servendosi dei rappresentanti del vecchio regime per azioni contro Cuba, senza intervento diretto alcuno. E’ così che si ebbe l’invasione de “Bahia de Cochinos”, (Baia dei Porci, ndr.) nella “playa Giron”: il progetto prevedeva che gli Stati Uniti favorissero le attività dei cubani del vecchio regime esuli a Miami per farli sbarcare nell’isola in modo autonomo e quindi dichiarare una repubblica indipendente da preservare riconoscendola e facendola riconoscere attraverso i vari organismi internazionali. L’idea di intervenire senza compromettersi direttamente era venuta al governo Kennedy e fu poi proseguita da Johnson. Si tratta della stessa tecnica impiegata in Libia, in Siria e in altri paesi, dove ci si serve dell’opposizione, ma in realtà chi c’è dietro sono sempre gli Stati Uniti.
I cubani di Miami, non potendo dar vita ad una seconda invasione dopo “playa Giron”, passarono ad un secondo piano: vennero organizzati piani di sabotaggio, come per esempio far esplodere bombe. In una di queste esplosioni, morì un italiano. Si trattava quindi di un piano di attività illegali, con traffici di armi ed altre attività per preparare atti criminali contro Cuba. Gli Stati Uniti conoscevano i loro spostamenti, sapevano cosa facevano e lasciavano fare. Sono già morti 3mila cubani per questo. E’ morto sì un italiano, ma ben 3mila cubani sono stati uccisi: l’italiano fu un effetto collaterale, ma le bombe erano contro il popolo cubano, gli interessi cubani e il governo cubano. Il problema è che non hanno fatto alcuna differenza. La febbre dei maiali, dovuta ad un virus introdotto da loro, fu una malattia molto grave e causò la morte di tutti i maiali, cosa che ho personalmente vissuto da piccolo.
Tutte queste cose si orchestravano a Miami, con l’appoggio o il benestare o col chiudere gli occhi del governo nordamericano. In questa situazione, dove a Miami si organizzavano azioni contro Cuba, l’unica soluzione era porre tre, quattro o cinque persone per informare il governo sulle azioni di questa gente, ossia che avrebbero messo una bomba all’Hotel Sierra Maestra o all’Hotel Havana Libre… Questo monitoraggio rappresentava l’unica scelta che avevamo a disposizione, cioè tenere controllato per evitare più morti: questa è la ragione per cui questi cinque “companeros” stavano a Miami; non facendo spionaggio, anche se la gente pensa che fossero spie. Le persone che seguono la tv, sanno che le spie raccolgono informazioni riguardanti i segreti di Stato, ma allora dovevano stare a Washington e non a Miami. E i “Cinque” dove stavano? A Miami, non nel centro del governo federale, e neppure in luoghi strategici degli interessi nordamericani”.
– Continuano tutt’oggi le azioni dei cubani di Miami e quindi degli Stati Uniti contro Cuba?
“Sì, il governo mantiene il suo embargo, che è il suo piano. Tuttavia, per questioni che non è possibile comprendere, ancora oggi a Miami si progettano atti terroristi. L’ultimo è successo quest’anno, nel 2012, quando il Papa venne in visita a Cuba: a marzo, un’agenzia di viaggi di una cubana nordamericana, Vivian Manerrud, che organizzava i viaggi autorizzati per i cubani, in gran parte cattolici, che volevano vedere il Santo Padre all’Avana, si è vista incendiare gli uffici. Al momento non ci sono sospettati, l’Fbi e la polizia di Miami sta indagando… certamente se questo fosse successo all’agenzia viaggi di un gruppo non cubano, qualcosa sarebbe già saltato fuori.
Ma ricordo anche quanto accadde l’11 settembre 2001 a New York, atto che Cuba ha sempre condannato e per il quale noi fummo solidali: nel momento in cui non si sapeva dove gli aerei dovevano atterrare, vista la confusione totale, Cuba aprì il proprio spazio per dare la possibilità agli aerei di atterrare; nonostante questo gli Stati Uniti permettono alle persone che mettono le bombe di andare in televisione e di dirlo spudoratamente, come nel caso di Luis Posada Carrile… uno arrivò ad affermare pubblicamente: “Pusimos la bomba, y que?”, abbiamo messo quella bomba e quindi? Stiamo parlando della bomba scoppiata sull’aereo di Cubana Aviacion, sul quale morirono 76 giovani schermitori cubani di ritorno da un evento sportivo dalla Guyana”.
– Quali prove avevano portato a Cuba i “Cinque” per dimostrare le attività terroristiche?
“Il problema era che loro stavano lì, erano cinque “companeros” che cercavano di dare un aiuto, di più non ci si poteva aspettare da loro. Era un tentativo del governo di risolvere una situazione che all’interno degli Stati Uniti non si risolveva, in un paese dove i media approvano gli attentati, dove tali informazioni vengono divulgate senza nessuna critica o addirittura dove vengono dati indizi attraverso i media su come devono essere fatti. Inoltre il processo ai “Cinque” è stato truccato, con mille vuoti legali e molte situazioni che sarebbero dovute essere prese in considerazione, ma che si sono ignorate. La cosa più spiacevole, è che il sistema sembra volere che le cose continuino ed il caso dei “Cinque” è avvenuto nel momento in cui Cuba aveva iniziato a venire in possesso di informazioni sensibili sulle azioni che si stavano svolgendo a Miami.
Gli agenti dell’Fbi sono venuti a Cuba a raccogliere informazioni sulle cose che stavano succedendo a Miami e la risposta è stata l’arresto dei nostri agenti: invece di risolvere il problema del terrorismo che aveva base nella città americana, hanno utilizzato quelle informazioni contro i “Cinque”. Non è una cosa secondaria, perché Cuba rappresentava un dilemma, ovvero se chiudere gli occhi dopo questa minaccia o agire. Loro hanno scelto la via più facile, cioè agire contro il paese straniero, come del resto hanno fatto quando sono andati a prendere Saddam Hussein senza uno straccio di visto legale, o quando sono andati a cercare Osama Bin Laden e non hanno chiesto il permesso a nessuno: sono entrati in un paese che non era il loro e poi lo hanno fatto scomparire. Cuba non ha questa possibilità, può solo tentare di risolvere il problema servendosi delle informazioni. E sono state proprio le informazioni, fornite dai “Cinque”, che gli Stati Uniti hanno scartato”.
– Tuttavia a Cuba si sperava che con l’ascesa alla Casa bianca del presidente Obama, le cose sarebbero cambiate, ma in realtà sono rimaste uguali…
“Uguali. Fece due atti all’inizio del suo mandato, atti di campagna elettorale e poi basta. C’è anzi la percezione che venga stigmatizzata la transizione di Cuba, il nostro commercio e le nostre relazioni economiche vengono ancor più disturbate e il nostro denaro viene controllato perché non si vuole che noi abbiamo denaro”.
– Quindi non è cambiato niente?
“Si tratta di una situazione difficile. Noi come popolo speriamo ovviamente che ci tolgono “el bloqueo”, però siamo determinati ad andare avanti nonostante l’embargo. Anzi, “andare avanti” è la nostra filosofia di vita”.
– Tuttavia vi è un forte movimento intellettuale internazionale che segue la questione dei “Cinque”. Cosa si potrebbe fare secondo Lei?
“Prima di tutto la grande stampa internazionale ha taciuto il caso, non dando la dovuta importanza. Però il numero di persone che ne viene a conoscenza aumenta di giorno in giorno. Forse non le persone comuni, che si alimentano delle informazioni proprio da quei grandi media, ma un gruppo sempre più importante d’intellettuali, scienziati, filosofi, artisti, sociologi, che cercano di sensibilizzare, inviando lettere, facendo dichiarazioni, denunciando, scrivendo ad Obama perché conceda il “perdono presidenziale”. Non tanto per tornare indietro nel processo, non è nelle sue possibilità, ma concedere quella grazia che ancora non ha dato. Poi ora che c’è di mezzo la campagna elettorale…”.
– Sì, adesso non è il momento ideale….
“Come vedete c’è ancora molta strada da fare fino al 4 novembre. Però questo non significa che noi non continuiamo con l’impegno di promuovere la diffusione di ciò che c’è dietro a questa vicenda e non solo a livello di giustizia per le cinque persone arrestate: è in ballo la giustizia per un intero popolo cui le cinque persone stavano dando il loro aiuto. Ed è questo il punto su cui ci dobbiamo focalizzare, ovvero l’aspetto umanitario di cinque individui condannati anche all’ergastolo, in carcere già da quattordici anni. Uno è uscito, ma non può muoversi da Miami per altri tre anni, con i pericoli che comporta lo stare in quella città, dopo che qualche mese fa hanno incendiato un’agenzia di viaggi…
Poi c’è la questione del processo, che fu manipolato e celebrato in anticipo dai media: l’opinione pubblica americana era già convinta della loro colpevolezza e quindi anche quel giurato che doveva poi votare. Si intende, non è che i “Cinque” non meritassero una multa, perché quando uno sta come agente di un governo straniero in un altro paese senza essere iscritto regolarmente, è passibile di una multa o una condanna. Agenti, ma non spie. Spie significa aver preso i “Cinque” con in mano informazioni del Pentagono o sulle bombe atomiche e simili. No, li hanno arrestati con informazioni riguardo quello che stava facendo la mafia cubana di Miami e cioè piazzare altre bombe per gli attentati. Questo è quello che loro hanno oggi in mano e per questo hanno condannato i “Cinque” all’ergastolo.
Oltre a questo, bisogna anche ribadire l’idea che gli Stati Uniti devono agire contro quella gente di Miami in modo serio e chiaro, perché si tratta pur sempre di terrorismo. Il terrorismo non è solo quello che distrugge le Torri gemelle, no! Terrorismo è tutto quello che implica l’intimidire in qualche modo il popolo di un paese. Per noi terrorismo sono tutte le sue forme e manifestazioni, le Torri gemelle, Fabio Di Celmo, sono entrambi atti di terrorismo. E c’è un obbligo internazionale in questo momento di cooperare contro il terrorismo e non solo contro il terrorismo che colpisce il Nord America. Gli Stati Uniti non possono sostenere che è terrorismo solo quello che colpisce loro o i loro alleati! Bisogna entrare nell’ordine delle idee che quello dei “Cinque” è un gesto di giustizia, di umanità e di nozione politica ed etica, poiché il terrorismo è un male globale”.
– Uno dei “Cinque”, Gerardo, è accusato di aver abbattuto un aereo americano. E’ un po’ assurda come accusa, però…
“Le persone dell’aereo avevano in passato gestito attività umanitarie aiutando i cubani che arrivavano con le barche, perché per avere un visto per gli Usa è difficile, quasi impossibile, o meglio lo danno a gruppi molto limitati ed ai giovani molto spesso è negato. Quindi i giovani che hanno famiglia negli Stati Uniti viaggiano via “balsa” (gommoni con cui raggiungono la Florida, ndr.). La stessa cosa succede per gli haitiani e i dominicani. In tutto il Centro America c’è un grande canale migratorio verso i paesi ricchi come anche succede in Europa. I corridoi sud-nord ci sono in tutta la geografia terrestre. L’unico però che esce nella tv è quello cubano. Quello che questi signori facevano era accogliere ed aiutare i cubani che arrivavano li, chiamando i soccorsi e quindi il governo concedeva il visto. Poi, però, le leggi cambiarono ed i cubani che si trovavano in alto mare venivano respinti a Cuba. Ora non è che gli Stati Uniti negano il visto in ambasciata, ma li rimpatriano direttamente. Unica clausola è che il cubano arrivi sul territorio nazionale “piec secos” (piedi asciutti) come dicono loro. Così l’organizzazione “Hermanos al rescate”, che con i velivoli localizzava chi era in mare, ed era cosa per cui erano pagati dal governo, ha perso tutto il suo seguito, non aveva più scopo di esistere, ed il sentimento anti-rivoluzionario andava scemando. Così si inventarono un’altra operazione che consisteva nell’entrare nello spazio aereo cubano grazie ai fondi raccolti per le opere umanitarie a Cuba; quando vengono raccolti fondi, c’è una certa parte di soldi che incrementa il fondo stesso, ma del resto non si sa… C’erano chi spingeva per l’entrata di questi aerei fino ad arrivare al “malecon” (lungomare) dell’Avana, spargeva volantini con proclami incitanti le sollevazioni popolari, cercando di sovvertire il regime dall’interno. Non si trattava di propaganda politica, ma di messaggi tipo popolo svegliati, imbraccia le armi, scendi in piazza, affronta di persona il governo. Tuttavia era un atto contro la sicurezza dello Stato. Pensi se un aereo cubano facesse la stessa cosa a Washington…
Per quell’aereo Cuba ebbe tutta la pazienza necessaria. Inviò messaggi a Clinton, inviò messaggi al governatore del Nuovo Messico, inviò messaggi a chi di dovere attraverso ogni canale possibile, in modo da far fermare queste persone. Gli Stati Uniti sapevano. Ovvero non solo che le persone mettevano le bombe, ma anche che volavano sopra i cieli di Cuba. I radar della Marina li vedevano decollare, vedevano quando rientravano, sapevano dove erano. Il tracciato del radar nordamericano che stava registrando il volo dal momento che era decollato, è sparito. Il giorno seguente sospesero la licenza di volo ai vari piloti del gruppo. Perché bisognava arrivare a questo? Forse pensavano che Cuba non sarebbe stata in grado di reagire? I piloti erano a conoscenza del fatto che noi non stavamo giocando, avevano ricevuto il messaggio che diceva “avion que pasa aqui de nuevo, se baja”. Di questo episodio è stata data la colpa a Gerardo in quanto responsabile dell’operazione. Invece era chiaro che questa gente pubblicizzava i loro voli per l’Avana con l’appoggio dei media. La decisione non poteva essere di Gerardo, ma del governo cubano ed io lo confermo. Dopo l’episodio terminarono i voli. La decisione di abbatterlo era stata dura? Sì, era dura, non dico il contrario. Tuttavia un governo quando vede in pericolo la sicurezza nazionale deve difendersi. Chiedete ai nordamericani ogni volta che tirano fuori il tema della sicurezza nazionale perché invadono un paese. Per riordinare le idee, i “Cinque” sono gli unici che i nordamericani hanno in questo momento, perché il resto delle cose non l’hanno avuto. E su di loro purtroppo ricade tutta l’impotenza di cinquanta anni”.
* Intervista raccolta l’11 ottobre 2012; hanno collaborato Gaetano de Pinto, Yilian Albornoz Portal e Enrico Oliari.