Arabia Saudita. Il caso Manahel al-Otaibi e l’ipocrisia delle riforme

di Giuseppe Gagliano –

Manahel al-Otaibi, 29 anni, istruttrice di fitness e voce coraggiosa per i diritti delle donne in Arabia Saudita, è scomparsa da quasi due mesi nelle viscere di un sistema carcerario che sembra inghiottire chiunque osi sfidare l’ordine costituito. La sua storia, come un sasso nello stagno, scuote la narrazione luccicante di un regno in trasformazione, quella che il principe ereditario Mohammed bin Salman vende al mondo con il sorriso di chi sa che i riflettori internazionali sono facili da accecare con il petrolio e le promesse. Condannata il 9 gennaio 2024 a 11 anni di carcere in un processo segreto per “reati di terrorismo”, Manahel non ha fatto altro che twittare a favore dell’emancipazione femminile e mostrarsi senza l’abaya, la tunica tradizionale imposta alle donne saudite. Eppure in un paese che si vanta di riforme epocali, la sua voce è stata soffocata con una ferocia che tradisce ogni proclama di modernità.
La vicenda inizia nel novembre 2022, quando Manahel viene arrestata. I suoi “crimini”? Post su Snapchat che la ritraggono in un centro commerciale senza l’abaya e l’uso dell’hashtag #EndMaleGuardianship, un grido contro il sistema di tutela maschile che ancora incatena le donne saudite a una dipendenza umiliante. Da allora, la sua vita è diventata un calvario: cinque mesi di sparizione forzata tra novembre 2023 e aprile 2024, isolamento nella prigione di al-Malaz a Riad, una gamba fratturata per le percosse subite, cure mediche negate. Quando, il 14 aprile 2024, riesce finalmente a parlare con la famiglia, racconta di pestaggi e violenze, un racconto che le autorità saudite smentiscono con la freddezza di chi sa che la verità è un lusso per pochi. Poi, un altro contatto a settembre, altre denunce di isolamento e aggressioni, e infine il silenzio, rotto solo dall’angoscia dei familiari e dalle denunce di Amnesty International.
La sorella Fawzia, fuggita nel Regno Unito per sfuggire a un destino simile, ha dato voce alla disperazione della famiglia: “Manahel ci aveva detto di essere stata picchiata. Siamo terrorizzati per lei. Le autorità nascondono la realtà, mentre criminalizzano ogni richiesta di diritti”. Anche Fawzia è nel mirino di Riad, accusata di aver usato l’hashtag #society_is_ready per incitare alla ribellione contro le tradizioni. Un’altra sorella, Maryam, ha già assaggiato il carcere nel 2017 per lo stesso attivismo. È un copione che si ripete: donne che alzano la testa e vengono schiacciate, mentre il mondo guarda altrove.
Le accuse contro Manahel sono un capolavoro di distorsione. Il Tribunale Penale Speciale, pensato per i terroristi, la condanna per “violazione dei principi religiosi” e “minaccia alla sicurezza sociale”, appoggiandosi a una legge antiterrorismo che trasforma un tweet in un’arma di distruzione. La Rappresentanza saudita a Ginevra parla di “crimini terroristici”, ma qui non ci sono bombe o complotti: c’è solo una donna che ha osato essere se stessa. E non è sola. Salma al-Shehab, 27 anni di carcere per aver ritwittato dissenso; Fatima al-Shawarbi, 30 anni per opinioni anonime; Nourah al-Qahtani, 45 anni per chissà quale post. Un elenco che cresce, mentre Mohammed bin Salman stringe mani occidentali e parla di Vision 2030, il suo progetto di un’Arabia Saudita moderna.
E qui sta il paradosso. Manahel nel 2019 aveva creduto alle parole del principe. In un’intervista a Deutsche Welle aveva lodato i “cambiamenti radicali”, la fine dell’obbligo dell’abaya, la libertà di espressione che sembrava all’orizzonte. Quelle parole le sono costate tutto. Le riforme di Bin Salman – il diritto di guida per le donne, l’allentamento del dress code – sono specchietti per le allodole, un maquillage per coprire una repressione che non si ferma. La legge sullo status personale del 2022, presentata come un passo avanti, ha invece codificato la tutela maschile, lasciando le donne in una gabbia appena ridipinta.
L’Occidente tace o applaude. L’Arabia Saudita siede alla Commissione Onu sullo status delle donne, ospita eventi sportivi, firma accordi miliardari. Ma dietro le quinte, Manahel e le altre scompaiono, torturate, dimenticate. Amnesty International chiede chiarezza, cure mediche, libertà. La sclerosi multipla di Manahel peggiora nel buio del carcere, e ogni giorno di silenzio è un grido strozzato. La domanda resta: quanto vale la vita di una donna che sogna la libertà, in un regno che preferisce il controllo all’umanità? Forse, per rispondere, bisognerebbe smettere di guardare le luci di Riad e ascoltare il silenzio delle sue prigioni.