Arabia Saudita. Vita o morte per Israa Ghomgham: rischia la pena capitale

di Melissa Aleida

Israa Ghomghan è una donna araba, ha 29 anni e da tre anni è detenuta nelle carceri arabe. Motivo dell’arresto fu la partecipazione a proteste pubbliche nella regione del Qatif in difesa dei diritti della minoranza sciita. La procura saudita ha chiesto per lei e per gli altri 4 attivisti la condanna a morte.
A prescindere dalla fede religiosa intima e personale, la differenza tra sciiti e sunniti rientra nella più ampia sfera politico-economica della contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran, rapporto costellato da interruzioni di relazioni diplomatiche e storiche rivalità . Il 2 gennaio 2016 l’esecuzione del leader sciita Nimr Baqir al-Nimr, esponente religioso il quale acquisì grande notorietà e seguaci, rappresentò l’ennesimo tentativo di isolare l’Iran in una lotta fatta di azioni e reazioni in cui si gioca con le vite degli esseri umani come pedine su una scacchiera in cui si vince il monopolio e l’affermazione del Potere.
Al-Nimr così come Israa Ghomghan rappresentano valvole di sfogo sociale, da frenare ai fini del mantenimento dell’ordine e degli equilibri monarchici, infatti per Israa e per gli altri 4 attivisti che hanno manifestato contro il regime i capi d’accusa sono “incitamento alla violenza”, “partecipazione a proteste”, “influenzare l’opinione pubblica”, “sostegno ai rivoltosi” e fondamentalmente gli si imputa di essere traditori. Traditori di una patria che non li tutela, ma che li vuole sottomessi. Qualcuno li etichettò addirittura come terroristi, sostenendo la loro vicinanza ad Al Qaeda poi smentita. La punizione richiesta appare sproporzionata anche ragionando nell’ottica del diritto islamico, tali comportamenti non corrispondono ad una figura tipica di reato in quanto non accompagnati da effettive azioni violente e aggressive.
Il nucleo centrale delle proteste di massa cui aderì Israa è la centenaria discriminazione degli Shia. Gli sciiti in Arabia Saudita rappresentano il 15% della popolazione e sono trattati come cittadini di serie B, come non credenti. In una nazione la cui costruzione di templi, chiese e sinagoghe è impensabile, così come impensabile l’adesione ad un’altra religione che non sia l’Islam sunnita, anche gli sciiti (che pure rappresentano un ramo dell’Islam) sono penalizzati e discriminati. Basti pensare che nei tribunali arabi non sono ammessi testimoni sciiti, non è consentito loro pubblicare libri, non possono ricoprire ruoli governativi, altre limitazioni le hanno nell’ambito educativo e militare.
Amnesty International in una dichiarazione afferma “Queste esecuzioni brutali sono l’ultimo atto della persecuzione continua delle autorità saudita verso la minoranza sciita. La pena di morte è stata messa in campo come un’arma politica per punirli delle proteste e indurre gli altri al silenzio”.
Silenzio: è questa la chiave che favorisce la custodia dei segreti crimini umanitari.
Di Israa non si hanno più notizie dal 2016, si sa solo che è rinchiusa in una prigione senza assistenza legale e senza processo in una nazione in cui il codice penale è la legge islamica.
La prossima udienza è fissata il 28 ottobre in cui Israa sarà sottoposta al giudizio del Tribunale speciale saudita che prenderà una decisione di vita o di morte: in caso di morte sarà la prima donna attivista araba ad essere decapitata, in caso di vita dovrà imparare dalla lezione e tacere per il resto dei suoi giorni.
Bastano idee liberali, progressiste e pronunciare slogan anti-governativi per strada o nei media per finire legalmente giustiziato. L’Arabia Saudita è il Paese in cui avvengono il maggior numero di condanne capitali: il 72% dei giustiziati sono stati condannati per reati non violenti, molti sono stati condannati da minorenni, l’uso della tortura è molto praticato. Nonostante le apparenti aperture del giovane re Bin Salman (definito il “millennial più potente del mondo”) con il decreto approvato a giugno 2018 che permette alle donne di guidare, il ruolo della donna risulta pietrificato nella tradizione: le donne necessitano del tutore maschile per viaggiare, studiare, uscire, sposarsi, il diritto islamico le penalizza anche durante e dopo il divorzio ( costrette ad alloggiare a casa del marito per tre mesi durante i quali il marito può far valere il diritto di ripensamento).
Dunque l’autorizzazione a guidare concessa alle donne, da molti osannata come l’inizio del cambiamento, è stata più un aiuto economico alle grandi aziende automobilistiche in crisi, che l’inizio della rivoluzione e il caso di Israa ne è una conferma.
Crimini umanitari e negazione dei diritti delle donne non sono valsi ad impedire l’entrata dell’Arabia Saudita nella Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne che (paradosso) ha l’obiettivo di tutelare l’uguaglianza di genere. Tuttavia in questa guerra fatta di contraddizioni, negazione di diritti, lotte per il petrolio e omologazione sociale c’è ancora qualche voce fuori dal coro che urla e il vero cambiamento inizia dagli esempi, qualunque sia la sua sorte la rivoluzione parte anche da e con Israa Ghomgham.