Bangladesh. Rohingya: Msf, ‘Nessuna soluzione a due anni dalla fuga dal Myanmar’

'Curiamo decine di migliaia di pazienti ogni mese. In meno di due anni 1,3 milioni di visite mediche'.

di Francesca Mapelli * –

Due anni fa, a partire dal 25 agosto 2017, 745.000 Rohingya entravano in Bangladesh per fuggire dalla violenta operazione di sgombero nello Stato di Rakhine per mano dell’esercito del Myanmar. Da allora sono stati fatti pochi progressi per riconoscere il loro status legale nell’area e affrontare le cause della loro esclusione in Myanmar, avverte Medici Senza Frontiere (MSF). A oggi, nessuna soluzione significativa è stata offerta ai Rohingya, costretti a vivere ai margini della società in tutti i paesi in cui si sono rifugiati.
In Bangladesh, oltre 912.000 Rohingya continuano a vivere negli stessi piccoli ripari temporanei di plastica e bambù messi in piedi al loro arrivo e a causa delle restrizioni su spostamenti e possibilità di lavoro restano completamente dipendenti dagli aiuti umanitari. Molte delle patologie che MSF tratta nelle proprie cliniche a Cox’s Bazar sono il risultato delle misere condizioni di vita che i Rohingya devono affrontare nei campi, a cominciare dallo scarso accesso all’acqua pulita e dal numero insufficiente di latrine.
I medici, infermieri e psicologi di MSF continuano a trattare decine di migliaia di pazienti al mese, e hanno effettuato oltre 1,3 milioni di visite mediche dall’agosto 2017 a giugno 2019. Con i bambini impossibilitati a frequentare la scuola, le future generazioni hanno scarse possibilità di migliorare la propria condizione.
“Negli ultimi due anni sono stati fatti pochissimi sforzi concreti per affrontare le cause della discriminazione dei Rohingya e consentire il loro ritorno a casa in sicurezza” dichiara Benoit de Gryse, responsabile delle operazioni MSF per Myanmar e Malesia. “I Rohingya possono avere qualche possibilità di un futuro migliore, solo se la comunità internazionale rafforza gli sforzi diplomatici con il Myanmar e sostiene un maggiore riconoscimento legale per questo gruppo, che al momento non ha praticamente alcun potere”.
Uno studio retrospettivo sulla mortalità condotto da MSF a dicembre 2017 ha rivelato che almeno 6.700 Rohingya sono stati uccisi in Myanmar nel primo mese dopo lo scoppio delle violenze, tra loro 730 bambini al di sotto dei 5 anni.
Bibi Jan ha perso due fratelli durante le violenze, lei stessa è stata accoltellata come testimoniano le cicatrici sul braccio. Dopo che il suo villaggio è stato raso al suolo è fuggita in Bangladesh dove oggi vive con i figli, nel campo di Kutupalong. “Vorrei mandare i miei bambini a scuola ma non ho abbastanza soldi e non possiamo lasciare il campo, È difficile pensare al futuro dei miei figli. Con un lavoro non avremmo bisogno delle distribuzioni di cibo ma potremmo vivere con le nostre forze” racconta agli operatori di MSF.
Anwar, rifugiato Rohingya di 24 anni che vive nel campo di Kutupalong (FOTO QUI), era un insegnante in Myanmar. “Stiamo soffrendo qui. Siamo depressi, la situazione nel nostro paese è molto deprimente. Dove andremo a vivere? Siamo sconvolti dalle condizioni di vita nel campo. Non abbiamo abbastanza cibo. Vogliamo solo tornare a casa, non voglio restare un secondo di più. La nostra speranza è di trascorrere la nostra vita in Myanmar”.

In Myanmar: “Teniamo dentro la nostra frustrazione”
Resta desolante la situazione dei Rohingya rimasti in un limbo in Myanmar, dove nel 1982 una legge sulla cittadinanza li ha resi a tutti gli effetti apolidi. Negli ultimi anni sono stati privati di ancor più diritti: dall’inclusione civica al diritto all’istruzione, dalla possibilità di sposarsi alla pianificazione familiare, dalla libertà di movimento all’accesso alle cure mediche. Nel 2012 la violenza tra i Rohingya e le comunità dello stato del Rakhine ha portato alla distruzione di molti villaggi.
Da allora, circa 128.000 musulmani Rohingya e Kaman nel Rakhine centrale vivono in campi sfollati sovraffollati e precari. Poiché viene negata loro la libertà di movimento, di lavoro, nonché l’accesso ai servizi di base, dipendono esclusivamente dagli aiuti umanitari.
“Non ci sono reali opportunità di lavoro qui, quasi non ci sono pesci da pescare. Non riusciamo nemmeno a comprare le cose che vogliamo perché qui non ci sono commerci” osserva Suleiman, un Rohingya a Nget Chaung, area in cui vivono circa 9.000 persone. “Le persone qui sono tristi, frustrate di non poter andare da nessuna parte né fare qualcosa. Teniamo dentro di noi la frustrazione perché non possiamo parlare della nostra situazione, non ci sono spazi per farlo. Non possiamo nemmeno spostarci verso la città più vicina, siamo in gabbia”.
Tra i 550.000 e i 600.000 Rohingya sono rimasti a vivere nello stato del Rakhine. Le loro condizioni di vita, già difficili, sono ulteriormente peggiorate con l’inasprirsi del conflitto tra l’esercito del Myanmar e quello dell’Arakan, un gruppo armato etnico del Rakhine.

Malesia: passano gli anni, aumenta la marginalità
Anche in Malesia, paese verso cui fuggono da oltre 30 anni, i Rohingya si trovano in un limbo. La mancanza di uno status giuridico li porta, insieme agli altri rifugiati e richiedenti asilo, a vivere in una crescente condizione di precarietà. Non potendo lavorare legalmente, finiscono nel mercato nero, sfruttati, a volte costretti alla schiavitù per aver contratto debiti ed esposti a incidenti sul lavoro. Perfino mentre camminano per strada o cercano cure mediche possono essere presi e reclusi in centri di detenzione o finire vittime di estorsione.
Iman Hussein, 22 anni, è fuggito dallo stato del Rakhine nel 2015, e dopo un periodo in Thailandia è arrivato a Penang, in Malesia. Come molti rifugiati, si è guadagnato da vivere lavorando nel settore edile a Penang, in forte sviluppo. Da 10 settimane non riceve più lo stipendio ma non ha altra scelta se non quella di continuare a lavorare perché sarebbe ancora più in difficoltà nel caso decidesse di smettere.

* Ufficio stampa di Medici Senza Frontiere.