Birmania. Il paese della Nobel Aung San Suu Kyi, dove i buddisti massacrano i musulmani

di Enrico Oliari –

Il Premio Nobel per la Pace ha perso la sua lucentezza da tempo, ed in modo palese quando nel 2009 venne assegnato a Barak Obama, presidente di quegli Stati Uniti che avevano ed hanno ancora oggi guerre su più fronti, e che negli ultimi anni (quindi anche sotto la sua amministrazione) hanno incrementato la spesa militare, oggi la maggiore del mondo con oltre 633 miliardi di dollari (4,3% del Pil).
Il non-senso del prestigioso premio ad Obama si sposa tuttavia con la realtà quasi impronunciabile del medesimo assegnato qualche anno prima, nel 1991, ad Aung San Suu Kyi, la pasionaria birmana in prima linea nella lotta per i diritti umani, ma, a quanto pare, non per i diritti di tutti gli umani.
In occidente la minoranza etnica Rohingya è pressoché sconosciuta, uno dei tanti nomi di tribù e di etnie che costellano paesi lontani. E della persecuzione nei confronti di questo popolo poco se ne parla, anche perché l’immagine di monaci buddisti in un paese governato da Aung San Suu Kyi che partecipano allo sterminio di 120 rohingya in un solo giorno è scomoda e manda all’aria gli schemi ideologici di molti.
Su Notizie Geopolitiche è da anni che accenniamo al dramma che stanno subendo i membri della minoranza islamica rohingya, oltre un milione di persone che vivono nello stato settentrionale del Rakhine: già nel luglio del 2012 vi erano stati scontri interetnici di portata tale da far scaturire le proteste delle ambasciate di tutto il mondo, e nel settembre dello stesso anno centinaia di monaci buddisti avevano manifestato per l’espulsione o il raggruppamento in campi dei rohingya, come aveva ipotizzato l’allora presidente birmano Thein Sein. Gli stessi monaci hanno ottenuto qualche anno dopo il ritiro dei documenti di identità dei rohingya al fine di impedirne il voto, cosa che poi è effettivamente avvenuta.
E se Aung San Suu Kyi nel suo intervento alla 21ma Conferenza delle minoranze etniche e dei gruppi armati separatisti svoltasi il 1 settembre a Panglong ha ricordato con i rispettivi rappresentanti le 135 minoranze etniche riconosciute e i 17 gruppi separatisti su 20 che compongono il paese “dimenticandosi” tuttavia di citare i rohingya, ben prima, nel dicembre 2012, l’Assemblea generale dell’Onu aveva espresso seria preoccupazione per la violenza in Birmania fra i buddisti e i musulmani rohingya e aveva chiesto al governo di affrontare le notizie di omicidi, stupri e arresti da parte delle autorità contro gli islamici.
Violenze ed omicidi ad opera dei buddisti che non hanno risparmiato il massacro di donne e bambini, interi villaggi bruciati con gli abitanti dentro, e che hanno portato giovani e meno giovani ad imbracciare le armi per difendere casa e famiglia: una catena di eventi che ha fatto intervenire l’esercito con scontri che si sono trasformati in guerriglia fino ai 90 morti di pochi giorni fa, quando gruppi radicali rohighya hanno attaccato posti di polizia. Il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito, ha comunicato che i primi ad attaccare sarebbero stati i rohingya, e che “Militari e poliziotti si battono assieme contro i terroristi bengali”.
Quello dei “terroristi” è oggi un comodo termine pigliatutto che serve nella dialettica esterna ed interna di un regime per additare il nemico, quand’anche si tratti di gente che lotta per non essere sterminata. E dove c’è la rivolta islamica (si veda le “Primavere arabe”), facilmente ci si infila l’estremismo islamico, come nel caso dell’Esercito Arakan per la salvezza dei rohingya.
Poi vi sono quelli che scappano dalla guerra. In 100mila rohingya sono in fuga verso il Bangladesh, con militari che sparano su di loro e i bengalesi che hanno chiuso le frontiere nel tentativo di fermare la marea umana, anche perché negli anni scorsi sono già decine di migliaia i rohingya arrivati per sfuggire alla pulizia etnica.
Giovedì scorso una portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Heather Nauert, ha chiesto che si individuino gli autori delle violenze e che ci si astenga alla giustizia nel rispetto della legge, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, senza che vi siano reazioni persecutorie generalizzate. Nauert ha invitato il governo birmano a realizzare le misure raccomandate nel rapporto della commissione Onu presieduta dall’ex segretario generale Kofi Annan, volte a migliorare le condizioni sociali ed economiche dello Stato del Rakhine proprio per sedare le violenze fra i buddisti e i musulmani, ma Aung San Suu Kyi ha risposto condannando l’attacco dei miliziani musulmani ai posti della polizia definendoli “un calcolato tentativo di vanificare gli sforzi di quanti lavorano alla costruzione della pace e dell’armonia nello stato di Rakhine”. Ha così ancora una volta “dimenticato” che non è da oggi che le famiglie rohingya vengono massacrate dai buddisti del suo paese.
Tutto questo nella terra dove la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è di fatto quella che comanda: non potendo lei essere per Costituzione presidente (ha posato uno straniero), è Consigliere di Stato della Birmania, ministro degli Affari Esteri e ministro dell’Ufficio del presidente.