Birmania. Il papa, la Premio Nobel, i rohingya e il peccato di omissione

di Enrico Oliari

La visita di papa Francesco in Birmania, paese dove i cattolici sono l’1 per cento della popolazione, riveste un significato importantissimo, dal momento che sono oltre 600mila i membri della comunità musulmana dei rohingya costretti a lasciare lo Stato del Rakhine a seguito delle persecuzioni ad opera dei militari ma anche dei monaci buddisti, non sempre questi ultimi latori di pace e di armonia a dispetto dell’immaginario comune.
Le violenze contro i rohinghya non sono cosa nuova, per quanto solo di recente scoperta dalla cronaca: per anni i monaci buddisti sono stati in prima linea nella lotta contro i rohingya, arrivando a violenze ed omicidi che non hanno risparmiato il massacro di donne e bambini e interi villaggi bruciati con gli abitanti dentro. Proprio i monaci buddisti hanno manifestato per il ritiro dei documenti di identità ai rohingya al fine di impedire loro il voto, cosa poi ottenuta.
La repressione ha portato giovani e meno giovani ad imbracciare le armi per difendere casa e famiglia: una catena di eventi che ha fatto intervenire l’esercito con scontri che si sono trasformati in guerriglia, con attacchi a esercito e polizia.
In questo quadro la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi non ha certo brillato. Nel 2012 si era riferita al dramma dei Rohingya come a una “tragedia nazionale”, ma una volta preso il potere non solo non li ha invitati alla conferenza delle minoranze (ne erano presenti 135) che si è tenuta lo scorso anno a Panglong, ma si è pure “dimenticata” di citarli in occasione della lettura della lista dei gruppi che compongono la popolazione birmana.
Sottoposto alle pressioni internazionali in primis del Palazzo di Vetro, il governo birmano ha convenuto con quello del Bangladesh per il rientro di almeno una parte dei rohingya costretti lì a riparare dietro alla minaccia delle armi, ed anche il Dalai Lama, capo spirituale del buddismo tibetano, ha chiesto alcune settimane fa alla leader politica birmana di intervenire per individuare una soluzione al dramma del milione e centomila rohingya: “Mi appello a te e agli altri leader di raggiungere tutte le sezioni della società per tentare di restaurare relazioni amichevoli tra la popolazione in uno spirito di pace e riconciliazione”, ha detto il Dalai Lama, aggiungendo che “Le persone che minacciano i musulmani, dovrebbero ricordare il Buddha”: “Lui avrebbe dato aiuto a quei poveri musulmani. Io lo sento. Sono molto triste”.
Oggi in Birmania è la giornata del papa, dello stesso Francesco che durante l’Angelus del 27 agosto ha lanciato dalla finestra di piazza San Pietro un appello per “salvare i rohingya perseguitati”. Incontrando nella capitale Nay Pyi Taw la consigliera governativa e ministro degli Esteri Aung San Suu Kyi (non può essere presidente per una legge che lo vieta a coloro che hanno contratto matrimonio con persone straniere), il pontefice ha affermato che “il futuro del Myanmar deve essere la pace: una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e a ogni gruppo, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune”. Da parte sua Aung San Suu Kyi ha notato che il papa “rimarca la nostra fiducia nel potere e nella possibilità di pace”.
Eppure dalla bocca di nessuno dei due è uscita la parola chiave, quell’impronunciabile “rohingya”, per cui la diplomazia si era mossa in anticipo pretendendo ed ottenendo che il papa non facesse un riferimento diretto a “quella” minoranza. Qualcuno, qualche prelato, ha parlato di timore di persecuzioni nei confronti della comunità cattolica nel momento in cui il pontefice avesse pronunciato “rohingya”, ma tant’è che lì la Chiesa si è dimostrata meno coraggiosa di quanto avrebbe potuto e forse dovuto essere.
Aung San Suu Kyi ha spiegato che “Tra le tante sfide che il nostro governo ha dovuto affrontare, la situazione nel Rakhine ha catturato più fortemente l’attenzione del mondo”. Ci mancherebbe.
Anche lei, come papa Francesco, partecipa al peccato di omissione e non parla di “rohingya”, esattamente come nel 2016 non li aveva citati nella lettura delle etnie e delle minoranze che risiedono in Birmania.
“Santità – ha continuato la pasionaria birmana -, le sfide che affronta la Birmania sono tante ed ognuna richiede forza, pazienza e coraggio. La nostra nazione è un ricco insieme di popolazioni, lingue e religioni: lo scopo del nostro governo è di valorizzare la bellezza delle nostre diversità e di trasformarle in una forza, proteggendo i diritti, promuovendo la tolleranza, garantendo la sicurezza. Il nostro obiettivo principale è portare avanti il processo di pace in base all’Accordo di cessate-il-fuoco a livello nazionale”.
Ma di “rohingya” non se ne parla.