Birmania. Non si placa l’ira del governo nei confronti della minoranza Rohingya

di C. Alessandro Mauceri –

Gli scontri più duri sono iniziati giovedì notte, quando i militanti del Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), una delle sigle della ribellione musulmana, hanno attaccato centrali di polizia e avamposti di frontiera nel nord del Rakhine, sulla costa occidentale del Paese.
La risposta delle forze governative non si è fatta attendere: in piena notte hanno lanciato un attacco nella zona di Maungdaw, non lontano dal confine con il Bangladesh. Secondo alcune agenzie internazionali l’esercito avrebbe fatto fuoco sui civili in fuga dai villaggi e sarebbero stati utilizzati mortai e mitragliatrici nei pressi del valico di frontiera di Ghundhum, dove erano intrappolati.
Fonti governative parlano di almeno 4mila persone cacciate dai villaggi del Rakhine, tra cui molte donne e bambini spinti verso la frontiera con il Bangladesh, cercando di guadare il fiume Naf che separa i due Paesi. “Hanno sparato su donne e bambini che avevano trovato riparo dietro le colline vicino alla linea di confine – hanno raccontato poi le guardie di frontiera del Bangladesh – e lo hanno fatto improvvisamente con mortai e mitragliatrici senza avvisare nemmeno noi”, riporta radio Vaticana.
Il bilancio ad oggi è di quasi un centinaio di morti: il governo parla riferisce di 98 vittime, 80 tra gli insorti e 12 tra le forze di sicurezza.
L’ufficio del Consigliere di Stato e leader del paese Aung San Suu Kyi ha mostrato su alcuni social media le foto delle armi utilizzate dalle milizie, tra cui coltelli e una bomba fatta in casa e definito i Rohingya “terroristi bengalesi”. Alcune notizie riferite dai reporter parlano però di interventi militari non limitati ai militanti ma rivolti a l’intera popolazione Rohingya.
Ancora oggi a questa minoranza etnica non viene riconosciuta la cittadinanza e i loro diritti civili sono spesso violati: sono considerati dai cittadini birmani come immigrati clandestini provenienti dal vicino Bangladesh. Nell’ultimo anno almeno 72mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh ma nessuno vuole accoglierli (addirittura è stato proposto di esiliarli su un’isola).
Assolutamente inascoltati gli appelli lanciati dalla commissione guidata dall’ex capo dell’Onu Kofi Annan che ha rilasciato una serie di raccomandazioni al governo di Suu Kyi. Ancora oggi più di milione di Rohingya vivono nello stato Rakhine. A febbraio il capo della commissione delle Nazioni Unite Linnea Arvidsson aveva parlato “uccisioni di bambini, donne e anziani, stupri e violenze sessuali sistematiche e su larga scala, distruzione intenzionale di cibo e fonti di sostentamento”, che potevano essere considerato pulizia etnica.
Anche Papa Francesco, durante l’Angelus di domenica scorsa, aveva lanciato un appello e parlato dell’escalation di violenza nel paese guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Il Papa ha deciso di anticipare a novembre sarà in Myanmar e poi in Bangladesh. Una decisione che ha destato sorpresa.
Il National Geographic recentemente ha dedicato al problema dei Rohingya un lungo articolo con foto che mostrano le condizioni in cui sono costrette a vivere queste persone.
Nel paese i cattolici sono solo dell’1 per cento su 54 milioni di abitanti del Myanmar, per il 90 per cento buddisti, ma verso di loro non sono mai state usate violenze. Diverso l’atteggiamento nei confronti dei Rohingya, ritenuti “una minaccia per la razza e la religione”.
Una posizione condivisa anche dal Premio Nobel Aung San Suu Kyi che teme che al loro interno vi possano essere elementi legati al terrorismo islamico. Quanto basta per giustificare, secondo i governi che si sono succeduti, decenni di politiche discriminatorie e di azioni violente cui sono stati sottoposti i Rohingya. Un atteggiamento che contrasta non poco con l’onorificenza ricevuta solo pochi anni fa dal capo politico del Myanmar.