Blackout Venezuela: ne parliamo con Francisco Simancas, dirigente del Movimento per il Socialismo

a cura di Maddalena Pezzotti

Il 23 gennaio 2019 il congresso del Venezuela ha dichiarato vacante la massima carica dello stato e proclamato il presidente della camera, Juan Guaidó, presidente della Repubblica ad interim. Dopo due mesi di tensione e scontri tra le fazioni, Guaidó è stato destituito e interdetto dai pubblici uffici. Ne abbiamo parlato con Francisco Simancas, cattedratico dell’Università delle Ande, esperto di frontiere e integrazione, e dirigente del Movimento per il Socialismo (Mas per la sigla in spagnolo). Partito non marxista, nato negli anni settanta sulla base di serie critiche al modello sovietico, il Mas è stato alleato di Hugo Chávez nei suffragi del 1998 e del 2000, nel 2002 gli ritira l’appoggio, additandone l’autoritarismo e, alla scomparsa di questi, si schiera per Henrique Capriles, contendente di Nicolás Maduro.

– La mossa di Guaidó ha colto tutti di sorpresa, considerato che il 2018 era stato in realtà un anno negativo per l’opposizione. Malgrado i due terzi del parlamento ottenuti nel 2015, e la massiva campagna di disobbedienza civile del 2017, i partiti contrari a Maduro, con poco in comune dal punto di vista dottrinale e programmatico, avevano passato il tempo addossandosi responsabilità l’un l’altro per il proprio insuccesso. Cosa ha cambiato le carte?
“In linee generali, la mossa di Guaidó è stata concertata fuori dal paese, con la complicità degli Stati Uniti. Non è frutto di un processo di elaborazione interiore. Dopo il tentativo di colpo di stato del 2002, e posteriori manifestazioni sovversive e antinazionali, si sono generate nuove opportunità con il decesso di Chávez nel 2013, e il crollo del prezzo del petrolio del 2015. Nella minoranza di destra, hanno cominciato a emergere progetti, con prevalenza di ipotesi golpiste e ricorso alla violenza, per mettere fine al governo e riformare la costituzione. Il fallimento delle strategie applicate, sia dal parlamento sia dagli apparati di sicurezza nordamericani, ha condotto un pezzo dell’opposizione a scelte estreme, le quali potrebbero risolversi in un’invasione territoriale, evenienza che tiene alta l’allerta ai confini. Del resto, nel passato i marines cercarono di entrare in Venezuela tra le file di supposti aiuti umanitari (nel 1999 venne negato l’approdo a una squadra di 450 marines a bordo della Uss Tortuga in soccorso agli alluvionati di Vargas, ndr). L’orchestrazione è perversa: vengono inviate derrate alimentari e farmaci, su camion nell’inquadratura dei mass media, quando le banche a orientamento statunitense non ci permettono di effettuare transazioni commerciali per l’acquisizione degli stessi beni vitali e il funzionamento dell’apparato produttivo e logistico. Persino i ricorrenti blackout, che tanta presa hanno avuto sull’opinione globale, contribuendo a falsare la lettura della situazione, sono conseguenza di attacchi intenzionali alla rete elettrica per mano di cellule affiliate a Guaidó, il quale si è scusato a telecamere spente per il disagio provocato alla popolazione”.

– L’opposizione ha forse imparato dagli avversari il valore delle pressioni internazionali? Maduro è rimasto saldo al potere grazie all’assistenza finanziaria di Russia e Cina, il supporto dell’intelligence di Cuba e massicce vendite di oro alla Turchia. Guaidó ha trovato un protettore in Trump, al quale offre un approccio fresco alle tattiche fin qui adottate dagli Stati Uniti per sbarazzarsi di Maduro, e ha guadagnato in un batter d’occhio il riconoscimento di un numero significativo di stati.
“La solidarietà al movimento di Guaidó, compresa quella dell’Unione Europea, dipende dalla forza impulsata agli sviluppi dagli Stati Uniti. Era prevedibile che, di fronte a un’esacerbata impotenza, chi esprime dissenso finisse per confederarsi con l’irriducibile nemico della rivoluzione bolivariana, sebbene molti settori guardino a queste manovre come a un tradimento. Infatti, i paesi saltati sul carro nordamericano, se da un lato si stracciano le vesti per l’indignazione suscitata dalle dimensioni della crisi, dall’altro tengono gli occhi serrati davanti al fatto che quest’ultima è stata indotta. Il Venezuela è sotto i colpi delle sanzioni statunitensi, decise da Obama nel 2015, ed estese da Trump nel 2017 e nel 2018. E’ stato espulso dai mercati finanziari e inabilitato a utilizzare il ricavo della vendita del petrolio per pagare le importazioni. I fondi esteri sono congelati. I canali di rinegoziazione del debito pubblico chiusi e l’interesse viene fissato da agenzie di rating connesse a Washington, a un rischio superiore di quello della Siria, con il risultato di un costo addizionale del 34 per cento fra il 2014 e il 2017. Questa contingenza è stata aggravata da una iperinflazione, senza fondamento nell’economia reale, determinata dall’assalto del mercato nero del dollaro, attribuibile alle banche di investimento di Wall Street. Per questa ragione, l’esperto dell’Onu, Alfred De Zayas (professore di diritto internazionale a Ginevra, ndr), in Venezuela nel 2017, nel suo rapporto chiede di rimettere gli Stati Uniti alla corte penale internazionale per crimini di lesa umanità”.

– Il parlamento ha lanciato importanti segnali alle forze armate, rispetto all’amnistia che riceverebbero in blocco, se si dovessero inquadrare a favore del cambio. I militari sono un pilastro della coalizione di governo, gestiscono rami strategici, come quelli dell’industria estrattiva e della distribuzione alimentare, e sono stati coinvolti in atti di corruzione e traffico di sostanze stupefacenti. Si farà vedere la reazione attesa?
“A differenza di altri paesi latinoamericani, le nostre forze armate hanno un’origine libertaria e anti-oligarchica, centrata nel pensiero bolivariano, e frutto di un sodalizio civile e militare. Da qui deriva la partecipazione dell’esercito negli organi di direzione governativa. In aggiunta, la provenienza sociale dei loro membri è popolare, dove è radicata l’identificazione con posizioni non elitarie. Sarà, quindi, difficile che si allineino con quanti hanno stabilito accordi con attori dalle mire imperialistiche, mettendo a repentaglio l’integrità della nazione. Non va dimenticato che in Venezuela, a dispetto della corruzione, i proventi dell’estrazione del petrolio sono stati redistribuiti nelle classi meno abbienti, invece di finire nelle tasche delle multinazionali. Il 70 per cento del bilancio è stato destinato a spese sociali, il Pil pro-capite è triplicato in dieci anni, la povertà è calata dal 40 al 7 per cento, la mortalità infantile è diminuita della metà, la malnutrizione è passata dal 21 al 5 per cento, è stato eradicato l’analfabetismo, e il coefficiente di Gini ridotto al più basso dell’America Latina [misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito introdotta dallo statistico Corrado Gini, ndr]. I dati sono del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, che non sono certo organizzazioni di stampo socialista”.

– L’America Latina, dalla sua transizione democratica negli anni Ottanta, ha fatto della riduzione delle ingerenze straniere uno degli obiettivi capitali della propria politica estera. Se Maduro dovesse cadere, i prossimi eventi in Venezuela saranno decisi con probabilità a Washington e Pechino. Lo stallo è rivelatore dell’inadeguatezza di meccanismi diplomatici come l’Organizzazione degli Stati americani e la debolezza della leadership politica regionale?
“La permanente intromissione nordamericana è stata tenuta a freno da Chávez con il rinforzo di diversi paesi della regione. Nell’attualità, i progressisti hanno perso quasi ovunque, lasciando il passo a esecutivi conservatori. In parallelo, la Oea, sotto la guida di Luis Almagro, è diventata uno strumento al servizio degli Stati Uniti e del suo tentativo di recuperare l’influenza a lungo mantenuta in America Latina. Sia la leadership sia i meccanismi diplomatici non sono operativi, affinché si possa optare per una soluzione attraverso il dialogo e altri mezzi pacifici. Lo svuotamento di queste opzioni, che hanno sempre giocato un ruolo di prominenza, ha trasformato un problema domestico in un confronto geopolitico. Verso la fine di febbraio, in un vertice a porte sigillate, è stato inaugurato il foro per il progresso dell’America del sud (Prosur per la sigla in spagnolo): un gesto di docilità dei governi di destra nei confronti di Donald Trump, che ha l’obiettivo di distruggere Unasur (Unione delle nazioni sudamericane, presieduta pro-tempore dal boliviano Evo Morales, ideologicamente prossimo al Venezuela, dotata di un parlamento e una banca con sede a Caracas, capace di sostituirsi alla Banca mondiale come fonte di credito in America Latina, ndr), e restaurare un trend di privatizzazioni senza argini. Inoltre Colombia, Cile e Brasile, stanno tessendo colloqui bilaterale, nell’area della difesa e la sicurezza, con il comando sud dell’esercito statunitense”.

– Il dibattito locale è più ricco di quello che i media dipingono. Quali sono le tesi principali, esposte dai social network, pro e contro le distinte posizioni?
“La tesi principale gira intorno all’illegalità della presidenza di Maduro a causa di presunte irregolarità a partire dalla convocazione fino alla sua realizzazione. Vengono addotti argomenti sulla mancanza di trasparenza e imparzialità del tribunale preposto. Coloro che difendono l’attività del governo richiamano la relazione del consiglio degli esperti elettorali latinoamericani, prestigiosa organizzazione di monitoraggio, presente con i suoi osservatori, che ne ha invece sancito la piena legittimità. Ha votato il 47 per cento degli aventi diritto, Maduro ha vinto con il 68 per cento delle preferenze complessive, gli altri candidati hanno incassato il 32, il 21 e l’11 per cento. Voluntad Popular [partito di Guaidó, ndr] e il Mud [Mesa de unidad democratica, centrista e conservatrice, ndr], le hanno boicottate, benché in una riunione ad hoc, svoltasi fra le parti nella Repubblica Dominicana, fossero stati raggiunti patti, sui quali erano state organizzate le elezioni. Nel 2017 è stata proposta una costituente che l’opposizione ha disertato. Un’altra tesi rilevante gira intorno alla crisi. I detrattori di Maduro segnalano l’inefficacia delle decisioni che hanno portato alla disgregazione economica. I suoi sostenitori denunciano, fra altri, l’embargo, il contrabbando dell’estrazione, e la cospirazione permanente, come fattori del dissesto. Non dimentichiamo che dopo la Russia, il Venezuela è il paese più ricco di risorse naturali del pianeta, il maggiore produttore di petrolio e gas, il secondo di oro, e uno dei più grandi di ferro e bauxite. Come se ciò non bastasse, ha lanciato uno sfida epocale, favorendo investimenti non statunitensi e costruendo un sistema di intercambio finanziario regionale imperniato su una cripto moneta”.

– A suo modo di vedere, cosa ci si può aspettare per il futuro del Venezuela?
“Si intravedono vari scenari. Il primo è quello in cui viene imposto quanto stabilito da costituzione e trattati, e il popolo venezuelano, attraverso le modalità previste dalla democrazia, decide e risolve i propri problemi politici, economici e sociali. Il secondo è relazionato con l’intensificazione della stretta internazionale mediante un blocco simile a quanto applicato per Cuba. Il terzo potrebbe comportare un’invasione, se non da Washington, da parte dei loro collaboratori, ben armati e addestrati dagli stessi, ai confini del Venezuela. A dispetto di tutte le difficoltà, il presidente Maduro ha il sostegno del popolo e delle forze armate, pertanto questa circostanza traumatica non è da scartare. Del resto, il costo della libertà, per un lessico opinabile in uso, è già stato valutato dagli esperti del dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, e ammonterebbe a 400 milioni di dollari, che dovremmo poi restituire in un lasso di tempo di due anni con materie prime, petrolio e altri minerali. L’intervento porterebbe ricavi a imprese statunitensi, cilene e argentine, nell’ordine del 75, 10 e 5 per cento rispettivamente. Anche le perdite umane sono state calcolate, nell’ordine delle ventimila, in caso di reazione violenta, con centomila feriti, e la detenzione di centocinquantamila chavisti, da ripartire in carceri speciali. Si parla di un’operazione lampo, concentrata in luoghi strategici, e in quarantotto ore gli Stati Uniti avrebbero il controllo assoluto. Le forze bolivariane non sono preparate per una guerra di tipo repressivo e, come accadde in Iraq, nei giorni anteriori ne verrebbe disarticolata la struttura gerarchica. La presenza nordamericana si manterrebbe per non meno di tre anni, in modo da neutralizzare i focolai radicali del chavismo, sulla traccia di quanto già sperimentato in Cile. La democrazia in Venezuela non è perfetta, ma nell’opposizione ci sono rappresentanti e militanti intolleranti, e non penso che da un modello caldeggiato dai conservatori americani, e i loro amici reazionari latinoamericani, possa scaturire un futuro migliore. La comunità internazionale non comprende a fondo i fenomeni intestini del Venezuela, finendo per inasprirli, e le fake news a cui hanno dato ampia eco, attraverso stampa e televisione, ne sono una dimostrazione. Il vero problema è la decontestualizzazione storica della rivoluzione e il distacco che si è creato fra il potere e i giovani, la cui interpretazione del chavismo deve poter trovare spazi di espressione”.