Brexit: meglio il taglio netto con un paese che ha sempre contrastato l’evoluzione dell’Ue

di Dario Rivolta * –

Per più di 200 anni la Gran Bretagna e la sua capitale Londra furono la maggior potenza mondiale. Le cose cominciarono a cambiare con l’ascesa economica e militare della Germania all’inizio del ‘900, ma la Prima guerra mondiale e la sconfitta di quest’ultima sembrarono rimettere le cose a posto. Durò comunque poco, come sappiamo, e un’altra guerra portò all’ascesa di una nuova potenza: gli Stati Uniti d’America. Nel frattempo erano cominciate le prime spinte indipendentiste di quelle che furono le colonie dell’impero e il Secondo dopo guerra vide Londra perdere, uno dopo l’altro, tutti i territori che aveva dominato così a lungo.
Fino agli Anni ’60 il Regno Unito rimase fortemente indebitato a causa del conflitto e delle distruzioni che aveva provocato ma, come altri Paesi d’Europa, poco a poco riuscì a risollevarsi. L’aiuto più importante arrivò dagli Stati Uniti che avevano bisogno di un’Europa economicamente sana e politicamente stabile per poter far fronte all’Unione Sovietica, a quel tempo l’unico Stato che avrebbe potuto ostacolare la potenza americana. La dura politica della signora Thatcher e l’ingresso nella Comunità economica europea fecero il resto. Soprattutto, checché ne dicano i britannici antieuropeisti, fu con il trattato di Maastricht che la rinascita di un certo benessere si ri-diffuse in tutto il Regno.
L’uscita dall’Unione, decisa con il referendum del 23 giugno 2016, potrebbe tornare a cambiare le cose. La Gran Bretagna di oggi, esattamente come dimostrato dalla distribuzione dei voti in quella consultazione, non è un territorio economicamente omogeneo e vede Londra e sobborghi, Scozia e (ancor più) Irlanda del Nord strettamente (anche se per motivi diversi) interconnessi con il resto del continente. Tutte le altre parti del Paese ritengono, a torto o a ragione, di essere soltanto penalizzate dal legame con Bruxelles.
Ragionando in termini puramente numerici, gli impieghi legati al mondo finanziario e assicurativo in genere sono circa 2 milioni e duecentomila di cui il 47 per cento sono localizzati nella sola Londra. In nessuna altra parte del Paese il numero di tali posti di lavoro supera il dieci percento. Londra era diventata la capitale finanziaria mondiale anche prima dell’ingresso nell’Unione e ciò grazie al fatto che lo sviluppo della rivoluzione industriale, in quel Paese prima che altrove, aveva portato con sé tutte le più moderne infrastrutture necessarie nei campi del diritto, dei cambi di valute, delle assicurazioni sulle merci in movimento e del sistema bancario in generale. Il fatto di essere parte di un mercato ricco come quello europeo aveva consentito di attirare proprio in quella capitale interessi da tutte le parti del mondo, potendo contare sulla totale libertà di circolazione dei capitali e sull’omogeneità legislativa in tutto ciò che riguardava lo scambio delle merci. Tutto il resto del Paese ne aveva beneficiato perché la ricchezza di Londra ricadeva automaticamente anche nelle altre aree.
Il fatto che New York fosse la capitale finanziaria del Paese nuovo “padrone del mondo” non era sufficiente a creare una vera concorrenza perché, comunque, si trattava di una città esterna all’Unione e non dava tutti quei vantaggi che l’appartenenza porta con sé. Lo stesso potrebbe dirsi oggi per quelle città che stanno crescendo velocemente quali piazze finanziarie: Singapore, Hong Kong e Tokio (il Giappone merita però un discorso a parte perché il recente Trattato di libero scambio che prevede il graduale abbattimento di tutte le reciproche barriere doganali e normative fa di Tokio una nuova e appetibile sede potenziale per le operazioni finanziarie dentro e con la Ue). La Brexit porrebbe Londra sul loro stesso livello ma molto dipende da come l’”uscita” sarà negoziata. Se si farà una “hard exit”, nessun vantaggio potrebbe restare ai britannici. Nel caso di una “soft exit”, che lasci la possibilità di mantenere un mercato comune senza confini tariffari e sui capitali, allora la posizione privilegiata potrebbe sussistere.
A questo punto è necessario chiedere cosa convenga a noi europei e la risposta non deve dipendere soltanto dagli aspetti immediatamente economici ma deve considerare tutte le conseguenze politiche.
In un’Europa ove le spinte centrifughe stanno aumentando, rendere l’uscita facile e senza significative conseguenze sarebbe un incoraggiamento per nuove “exit” e questo sembra sia già evidente per i nostri negoziatori. Ci sono però altri aspetti da valutare e riguardano la specificità dei confini europei comuni con territori controllati dalla corona britannica, si pensi a Gibilterra e all’Irlanda del Nord.
All’interno dell’Unione, senza dogane e senza grandi differenze legislative, il confine tra la Spagna e Gibilterra restava più una nota di colore che una vera demarcazione. Se ora la Gran Bretagna diventa uno Stato qualunque come ad esempio la Turchia o il Messico, ebbene non si vede perché gli spagnoli e la stessa Bruxelles non debbano chiedere, come fece la Cina con Hong Kong, la “restituzione” di un loro territorio. In più è evidente che l’importanza di Gibilterra sta nella sua posizione strategica di controllo sul passaggio tra il Mediterraneo e l’oceano Atlantico. Perché dovremmo accettare di essere “controllati” da quella che diventerebbe a tutti gli effetti una “potenza straniera”? Anche la questione dell’Irlanda del Nord andrebbe posta. Se, come sembrerebbe una prima intenzione della signora Theresa May, quel confine non fosse riesumato, ci sarebbe da vedere come saranno gestite le merci europee che transiterebbero attraverso l’Irlanda: da Dover pagherebbero dazi e da Dublino no? Come la possono prendere i produttori britannici delle stesse merci? Oppure dove sarà messo il confine vero? Se sulla costa dell’isola britannica, oggettivamente, Belfast preparerebbe la sua prossima secessione dal Regno, trovandosi più legata economicamente al sud che a Londra? E che dire della Scozia? Lì la maggior parte della popolazione ha chiesto di rimanere parte dell’Europa per non sentirsi una semplice colonia inglese. Vogliamo, noi europei, abbandonare le loro aspirazioni verso di noi e uccidere le loro speranze? Perché dovremmo farlo?
Non neghiamocelo: se l’Unione di oggi lo è solo nel nome, buona parte della colpa di questa mancata evoluzione ricade proprio sulla Gran Bretagna. Il suo ingresso è servito a qualcuno per accertarsi che una vera Europa Unita non potesse nascere. Se oggi vuole uscire, facciamone una virtù e tagliamo di netto quei legami che per noi erano soprattutto legacci e dimostriamo con gli inconvenienti che Londra dovrà affrontare quali innegabili vantaggi ci sono nel restare uniti o, addirittura, nel diventarlo di più.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.