di Giuseppe Gagliano –
La Banca centrale europea e la Commissione europea hanno concesso il loro via libera: la Bulgaria, Stato membro della NATO ed entrato nell’Unione nel 2007, è pronta a fare il suo ingresso nella zona euro. L’obiettivo è fissato per l’inizio del 2026, ma la politica comunitaria si muove con una tale urgenza da rendere credibile una ratifica già entro luglio. Il problema? A Sofia l’entusiasmo è tutto delle élite, non certo del popolo.
Il governo bulgaro, fortemente europeista, ha accolto con favore il giudizio positivo espresso nei rapporti ufficiali di Bruxelles e Francoforte. Per l’esecutivo entrare nell’euro è un simbolo di piena integrazione, un passo obbligato nel cammino europeista. E in effetti, secondo i trattati, tutti i Paesi membri che non godono di clausole di opt-out, come la Danimarca, si sono impegnati a entrare nella moneta unica. Tuttavia, a quasi vent’anni dall’allargamento a est, la realtà è più complessa.
Ad oggi solo 20 dei 27 Stati membri hanno adottato l’euro. Alcuni, come la Polonia o la Repubblica Ceca, continuano a rifiutarsi, ufficialmente per motivi tecnici, in realtà per ragioni politiche e di consenso popolare. E la Bulgaria non fa eccezione: i sondaggi più recenti mostrano che la maggioranza dei cittadini è contraria a una transizione monetaria accelerata. Le preoccupazioni sono concrete e ben radicate. La paura dell’inflazione, alimentata dalle esperienze già vissute da altri Paesi entrati nella zona euro, si somma a un crescente scetticismo verso Bruxelles e le sue istituzioni, accusate di agire con logiche coloniali nei confronti dell’Europa orientale.
La Bulgaria, uno dei Paesi più poveri dell’Unione, vive oggi una frattura interna evidente. Da un lato una classe politica che cerca legittimazione internazionale abbracciando in blocco l’agenda eurocratica, dall’altro un’opinione pubblica sempre più diffidente, soprattutto nelle aree rurali, dove gli effetti negativi della globalizzazione si fanno sentire con maggiore forza. L’adesione all’euro, lungi dall’essere percepita come un’opportunità, viene letta da molti come un’imposizione: un cambiamento di moneta che non porterà benefici immediati, ma rischia di far salire i prezzi e ridurre il potere d’acquisto di pensionati e lavoratori a basso reddito.
La Bce e la Commissione europea sembrano però insensibili a queste preoccupazioni. Il messaggio che arriva da Bruxelles è chiaro: i criteri macroeconomici sono stati rispettati, l’adesione è tecnicamente giustificata. Punto. La legittimità democratica, il consenso popolare e il rispetto del principio di sussidiarietà vengono messi in secondo piano. Ancora una volta, l’Unione appare più preoccupata di consolidare l’architettura monetaria che di ascoltare le voci dei cittadini.
In questo contesto l’appartenenza della Bulgaria alla Nato funge da promemoria geopolitico: l’allineamento all’occidente non è solo militare ma anche monetario, e in tempi di confronto globale, ogni tassello conta. L’euro insomma non è solo una moneta: è uno strumento di uniformazione, un vettore di omologazione economica e politica.
La storia bulgara ci dice però che le identità locali, anche quando silenziose, non si cancellano con una decisione tecnica. E la sfida che si profila per Bruxelles non sarà tanto far entrare la Bulgaria nell’euro, quanto gestire le conseguenze politiche e sociali che questa forzatura potrebbe generare.