Burkina Faso. La guerra dell’informazione e il volto oscuro del regime Traoré

di Giuseppe Gagliano

Nel cuore del Sahel, dove l’instabilità è la regola e non l’eccezione, il Burkina Faso si è trasformato in un laboratorio autoritario in cui la propaganda si fa arma e i social network diventano campo di battaglia. Da quando il capitano Ibrahim Traoré ha preso il potere con un colpo di Stato nell’autunno del 2022, Ouagadougou è diventata epicentro di un esperimento politico in cui nazionalismo, repressione e manipolazione dell’informazione si intrecciano in un fragile equilibrio tra il collasso e la guerra totale.
Non è solo nelle caserme o nelle sale del Consiglio dei ministri che si decide il destino del Burkina Faso. È anche e soprattutto nelle strade, nei gruppi Telegram, su TikTok, e nei commenti su Facebook. Gli “uvayiyans”, una milizia informativa formata da giovani fanatici del regime, organizzati capillarmente da Kassoum Traoré, fratello minore del presidente, presidiano gli snodi cruciali della capitale sventolando le bandiere della Russia e diffondendo contenuti che ricalcano la retorica del riscatto postcoloniale.
“Il nostro campo di battaglia sono i social, ma anche le strade”, racconta A., uno degli animatori del movimento “totyiyun” nella capitale. “Smentiamo le fake news dell’occidente e difendiamo il nostro capitano anche fisicamente”. Parole che sintetizzano una dinamica inquietante: lo Stato burkinabè si appoggia sempre meno sulle istituzioni e sempre più su milizie paramilitari, digitali e fisiche, per mantenere il controllo.
Non si tratta più di propaganda interna. Le reti di disinformazione che promuovono il culto di Traoré sono ormai transnazionali. Secondo Africa Confidential, alcune di queste operazioni sarebbero condotte da un gruppo di troll addestrati negli Stati Uniti, coinvolgendo anche elementi della diaspora burkinabè, in particolare in Costa d’Avorio. Ad Abidjan le autorità locali hanno recentemente arrestato un noto attivista filogovernativo, “Aino Faso”, con l’accusa di destabilizzazione. I rapporti tra i due Paesi sono al minimo storico, inaspriti da continue accuse di complotti orchestrati dall’estero, spesso senza alcuna prova. Il regime grida al golpe quasi ogni mese, alimentando un clima di paranoia e legittimando così ulteriori misure repressive.
Dietro l’immagine del patriota africano che si oppone all’imperialismo francese e alle “bugie” occidentali, si nasconde un apparato repressivo brutale. Il 2025 è iniziato con una sequenza imbarazzante di sconfitte militari contro JNIM (Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin), il principale gruppo jihadista del Sahel. In risposta il governo ha scatenato una caccia ai “traditori interni”: giornalisti, sindacalisti, magistrati e persino ex ministri sono stati arrestati, fatti sparire, o arruolati forzatamente e inviati al fronte.
Una legge bavaglio punisce chiunque “danneggi la reputazione del governo”, anche con un post online. Non è retorica: dopo un presunto tentativo di colpo di Stato nel giugno 2024, sei giornalisti sono scomparsi nel nulla. Solo mesi dopo il governo ha ammesso che erano stati “mobilitati” per combattere al fronte, in prima linea contro i jihadisti. Il caso più clamoroso è quello dell’ex ministro degli Esteri Ablassé Ouedraogo, ultrasettantenne, riapparso dopo mesi in un video grottesco che lo mostra armato e vestito da militare, ridicolizzato dal cameraman. Una messa in scena che somiglia più a un’umiliazione pubblica che a un atto patriottico.
La repressione dell’informazione ha toccato il suo apice nel marzo 2025 con l’arresto di Guezouma Sanogo e Boukari Ouédraogo, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione dei Giornalisti del Burkina Faso. Un messaggio chiaro: chi scrive o parla contro il regime può essere silenziato o arruolato a forza.
Nel tentativo di contenere il disastro mediatico, Traoré ha nominato a dicembre un fedelissimo, il giornalista ed ex ministro della Comunicazione Rimtalba Jean Emmanuel Ouedraogo, come primo ministro. Un uomo della propaganda per un governo sempre più isolato, privo di legittimità internazionale e in crisi militare.
Ma il caso più tragico e meno raccontato riguarda il massacro perpetrato nei villaggi di Béna e Lékoro nel marzo 2025. Secondo Human Rights Watch, l’operazione “Green Whirlwind 2”, condotta tra febbraio e aprile da forze speciali e miliziani “Volontari per la Difesa della Patria”, ha causato la morte di oltre 130 civili, in gran parte fulani. Le testimonianze raccolte parlano di villaggi assediati, vie di fuga bloccate, elicotteri e droni impiegati per stanare e giustiziare donne, bambini e anziani. Il governo ha negato tutto, parlando di un’operazione “antiterrorismo” per liberare ostaggi. Ma nella zona, dicono i sopravvissuti, non c’erano jihadisti. Il sospetto è che si tratti di un’operazione etnica contro i fulani, spesso accusati, senza prove, di essere collusi con i gruppi islamisti.
In risposta JNIM ha lanciato rappresaglie nella provincia di Sourou, uccidendo oltre cento civili ritenuti collaborazionisti. Il ciclo di vendetta si è riaperto, e ogni attore ha ormai le mani sporche di crimini di guerra.
Dietro l’iconografia dell’eroe popolare, dietro le sfilate con le bandiere russe e i discorsi anticoloniali, resta una verità più dura: il Burkina Faso è oggi un Paese frammentato, militarizzato, e guidato da una giunta che si regge sul terrore e sulla manipolazione. Intere province sono fuori controllo, i jihadisti avanzano, i civili fuggono. La comunità internazionale tace, distratta o complice, mentre Ouagadougou diventa il teatro di una guerra sporca: sociale, digitale, etnica.