Cambogia. Opposizione esclusa: porta in faccia all’occidente

di Francesco Giappichini

“La Francia deplora il rifiuto della Commissione elettorale nazionale della Cambogia di registrare il Parti de la bougie, principale partito di opposizione, in vista delle elezioni legislative previste per il 23 luglio. Questo sviluppo è un segnale preoccupante, che mina la democraticità del voto”. E’ quanto ha dichiarato il Quai d’Orsay, ossia il Ministère de l’Europe et des affaires étrangères (Meae), all’indomani dell’esclusione del Candlelight party dal voto, su decisione del National election committee. Una valutazione condivisa dalla Commissione europea e dall’occidente. Del resto, se l’unica forza credibile di opposizione al regime di Phnom Penh non partecipa al voto, siamo innanzi a uno smacco per gli Stati uniti nella regione dell’Indo-Pacifico.
L’impressione è che il primo ministro della Cambogia Hun Sen, uomo forte dello Stato dal 1985, abbia deciso di passare il Rubicone, e di collocare definitivamente il Paese nell’orbita cinese. Dando continuità a un processo autocratico lungo un decennio, che è passato attraverso arresti eccellenti (e l’esilio degli oppositori), e che è segnato dalla collaborazione militare con Pechino. Una partnership militare che passa dalla collaborazione nella base navale di Ream, finanziata in parte dalla Cina, per culminare con le esercitazioni congiunte svoltesi tra marzo e aprile: la quinta edizione del China-Cambodia “Golden Dragon-2023” ha visto la partecipazione di oltre tremila effettivi.
I motivi addotti dalla Commissione elettorale nazionale di Phnom Penh sono pretestuosi: il Konabaksa phleungtien (Parti de la bougie), già escluso dalle politiche del ’18, non ha presentato le copie originali di alcuni documenti, poiché già sequestrati dalla Polizia nel ’17. Ed è altrettanto chiaro come le speranze nel ricorso alla Corte costituzionale, che deciderà entro pochi giorni, siano quasi inesistenti. L’esito autoritario della vicenda ha sorpreso gli analisti, convinti che le aperture del ’22 fossero durature. Premier e classe dirigente, per le pressioni internazionali, o per evitare che il Paese fosse schedato tra gli “Stati a partito unico”, alle comunali del ’22 avevano, di fatto, riammesso il Partito del Lume di candela: una sorta di “riabilitazione politica”, nonostante le vessazioni anche giudiziarie nei confronti dei candidati.
Sotto la guida di Teav Vannol, il Parti de la bougie ottenne il 22,2% dei consensi. Beninteso, poca cosa rispetto a quel 44,4% che nelle legislative del ’13 innescò la reazione autoritaria del Cambodian people’s party (ma anche a confronto col 43,8 delle comunali ’17). E tuttavia quanto bastava perché il premier potesse incontrare i leader del mondo, presentandosi come presidente eletto. Basti pensare ai due incontri col presidente Joe Biden. Il 70enne capo del governo, non a caso ex militare, avrà così la strada spianata per attuare il suo progetto di trasferire il potere al figlio. Il generale 44enne Hun Manet, comandante del Royal cambodian army con studi negli Stati uniti e in Gran Bretagna, è stato definito il “futuro primo ministro”, ed è verosimile che succeda al padre dopo le elezioni del ’28. E’ probabile che il rinnovo dei vertici coinvolgerà anche altri: alcuni ministri e collaboratori, specie quelli della generazione al potere dal ’79, sarebbero sostituiti dai figli. Gli analisti prevedono che il prescelto non sarà pregiudizialmente nemico dell’Occidente, come il padre. Intanto i capi delle Forze armate di Australia e Nuova Zelanda l’hanno già incontrato.