C’è mandato e mandato

Il procuratore capo della CPI chiede l’arresto per Netanyahu (e non solo). È un’occasione per riflettere sulla guerra, sul diritto internazionale, e sull’ipocrisia dell’Occidente.

di Eugenio Lanza –

Nella giornata di lunedì 21 maggio 2024 il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan ha richiesto l’emissione di un mandato d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Oltre che verso il premier israeliano e il suo ministro della difesa, la medesima istanza è stata avanzata nei riguardi di alcuni vertici di Hamas: il leader a Gaza Yahya Sinwar, il capo politico Ismail Haniyeh, e quello militare Mohammed Diab Ibrahim al-Masri. Si attende ora la decisione dei giudici della camera preliminare, che dovranno valutare questa pesante richiesta appena mossa dall’avvocato britannico.
Ma quale sarebbe il valore reale di un eventuale mandato di cattura, se questo venisse spiccato dalla corte? Per dare una risposta completa, occorre prima aprire una breve parentesi circa l’organo di cui stiamo trattando. La Corte penale internazionale è un tribunale istituito nel 2002, con l’obiettivo di perseguire e sanzionare crimini internazionali. La sede si trova a L’Aia, nei Paesi Bassi. Essa si occupa solo di reati di estrema gravità e di rilevanza globale, come il genocidio, i crimini di guerra, e i crimini contro l’umanità. Questa non rappresenta un organo dell’ONU, sebbene il processo della sua formazione sia avvenuto proprio in seno all’Assemblea delle Nazioni Unite, e malgrado tuttora il Consiglio di Sicurezza ONU abbia il potere di deferire alla CPI una serie di casi che non ricadrebbero sotto la propria giurisdizione. Lo Statuto di Roma della CPI (il trattato istitutivo), stipulato nel 1998 ed entrato in vigore quattro anni dopo, stabilisce che la Corte abbia giurisdizione sovranazionale. Il tribunale può dunque agire nei confronti di individui, ma non di Stati, che abbiano compiuto uno dei succitati crimini all’interno del territorio degli “Stati parte”. Vale a dire: entro i confini di quelle nazioni che riconoscono il tribunale, e che forniscono allo stesso i mezzi necessari a rendere effettivo il potere conferitogli. Ciò implica, peraltro, che anche i crimini commessi da cittadini di Stati estranei al riconoscimento della CPI, se verificatisi sul territorio di uno Stato parte, debbano essere perseguiti dalla Corte con gli strumenti a sua disposizione.
Ed è qui che si sostanzia il nocciolo della questione: in che modo il tribunale può coartare uno Stato che non la riconosce a sottoporre un proprio cittadino al suo giudizio? Semplicemente nessuno.
Ci troviamo di fronte al problema cruciale non solo della CPI, ma in generale del diritto internazionale: la sua efficacia. La sovranità di un ente discende formalmente da un ordinamento giuridico. E, al contempo, la reale applicazione di un ordinamento è consentita dall’esistenza di un monopolio della forza, esercitato da un’istituzione riconosciuta come legittima. È questo il caso degli Stati nazionali: diritto e sovranità si sorreggono a vicenda, l’uno dando forma all’altra e questa restituendogli sostanza. Ma se per rivoluzione, golpe, guerra civile, conquista od evoluzione statuale, il potere delle istituzioni venisse sospeso o definitivamente fatto cessare, allora anche la più rigida delle costituzioni diverrebbe carta straccia. Questo per una ragione molto banale: la manifesta inferiorità fisica della cellulosa rispetto al piombo. Nel caso dello scenario globale, semplicemente, la sovranità è frammentata in centinaia di centri di potere diversi, coincidenti quasi sempre con Stati nazionali, che non mettono mai a disposizione il proprio uso legittimo della forza per finalità non aderenti ai propri interessi, o a quelli della sua classe dominante. Vale a dire, non si sottopongono quasi mai a una sottrazione di sovranità a favore di enti terzi, se non in via esclusivamente formale e per perseguire obiettivi che comunque avrebbero rappresentato tappe della propria strategia geopolitica.
Queste osservazioni, peraltro, trovano particolare riscontro nella realtà in relazione all’ambito militare. Prendendo ad esempio il caso del processo di integrazione europea, notiamo come le istituzioni comunitarie abbiano assunto col passare del tempo una rilevanza sempre maggiore nella vita dei singoli Paesi membri. Addirittura, il diritto che ne discende è ora posto in una posizione di superiorità gerarchica nel rapporto con i vari ordinamenti nazionali, sebbene la sua applicazione sia comunque sempre demandata all’azione dei singoli Stati. Tuttavia, anche in questa innovativa e luminosa esperienza storica, il controllo del potere militare è rimasto appannaggio delle singole nazioni, ed ogni ipotesi di istituzione di un esercito comune è finita per naufragare. I popoli, disposti persino a cedere a Francoforte la gestione delle proprie finanze, perdendo (più o meno coscientemente) la sovranità monetaria e parte di quella fiscale con l’adozione di una moneta unica, hanno però sentito il proprio afflato europeistico arrestarsi di fronte ad un limite invalicabile: la nazionalità delle proprie milizie.
Se poi ci fermiamo un attimo ad analizzare l’ente internazionale per eccellenza, cioè l’ONU, notiamo questa tendenza manifestarsi in maniera ancor più plastica di fronte ai nostri occhi. Non solo al Palazzo di vetro di New York non si prendono quasi mai decisioni dissonanti rispetto alle dinamiche di potere già esistenti de facto tra le nazioni (a differenza dei parlamenti e dei tribunali nazionali, dove rispettivamente l’interesse collettivo e il senso di giustizia possono prevalere sulla volontà dei potenti e la forza dei criminali), ma anche laddove esse vengano adottate, sovente rimangono poi lettera morta. Non si può a tal riguardo non citare, per rimanere in tema, la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, emanata più di cinquantasei anni fa e mai rispettata da Israele. Peraltro, tutto ciò avviene malgrado gli organi delle Nazioni Unite non siano stati strutturati secondo un principio di reale democrazia, bensì con l’obiettivo di entrare il meno possibile in conflitto con i rapporti di forza che vigevano tra le grandi potenze globali nel momento della sua fondazione. Basti pensare al potere di veto nel suddetto Consiglio di Sicurezza, prerogativa assoluta ed esclusiva dei cinque membri permanenti. Un po’ come se nel nostro Parlamento i senatori a vita disponessero di un’assemblea a parte, in cui discutere delle cose più importanti, e nella quale un solo voto contrario potrebbe bloccare l’approvazione di ogni legge. Insomma: se dovessimo spiegare il diritto internazionale ad un alieno, sarebbe un po’ difficile fargli credere che esso sia qualcosa di più di un utile strumento di mediazione.
Tuttavia, senza indugiare ancora su riflessioni concernenti la filosofia del diritto, che pure in questo momento storico meriterebbero il proprio spazio, torniamo alla Corte penale internazionale. Essa, dicevamo, non ha alcun potere reale nei confronti dei cittadini di Paesi che non la riconoscono, specialmente se si tratta di membri dei loro governi o importanti generali. È per questo motivo che, per quanto mediaticamente essa rappresenti un altro pesante colpo subito da Tel Aviv, la richiesta del procuratore Khan non sposterà praticamente nulla sul piano bellico e sostanziale.
Questo episodio tuttavia, se messo vicino ad uno analogo risalente ad un anno fa, ci permette di osservare con un discreto senso di nausea la profonda ipocrisia delle cancellerie occidentali, nonché dei media mainstream di questa parte del mondo.
In data 17 marzo 2023, infatti, venivano spiccati dalla CPI due mandati di cattura internazionali molto significativi: uno nei confronti di Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, ed uno verso Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria federale per i diritti dell’infanzia nello stesso Paese. In entrambi i casi, l’accusa era la medesima: aver commesso crimini di guerra durante la fase più recente e sanguinosa del conflitto in Ucraina, quella cominciata nel febbraio 2022. In particolare, ai due veniva imputata la deportazione di popolazione infantile dai territori occupati in Ucraina, e il conseguente trasferimento forzato in Russia. Si tratta di capi d’imputazione sicuramente molto gravi, riguardanti operazioni che, se ne fosse confermata la reale attuazione, dovrebbero essere sanzionate con la massima severità. Se è vero che la guerra è intrinsecamente morte e barbarie, è anche vero che alcuni comportamenti, perpetrati contro la popolazione civile con insensata crudeltà, meritano un grado di disprezzo e di censura ancora maggiore.
E all’epoca in effetti dall’Ovest del mondo questo movimento di riprovazione non si fece attendere, così come un plauso generate per l’operato de L’Aia. In primis, a supportare la delibera del tribunale internazionale fu il leader ucraino Zelensky, che dichiarò: “Questa è una decisione storica che porterà a responsabilità storiche. Il capo di uno stato terrorista e un altro funzionario russo sono diventati ufficialmente sospettati di un crimine di guerra: la deportazione di bambini ucraini. Il trasferimento illegale di migliaia di nostri bambini nel territorio di uno stato terrorista. Ringrazio tutto il team del Procuratore Karim Khan per il lavoro svolto”. Alle sue parole si aggiunsero quelle di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza: “Questa è una decisione importante della giustizia internazionale e per il popolo ucraino. All’Unione europea abbiamo sempre detto che i responsabili dell’aggressione illegale contro l’Ucraina devono essere assicurati alla giustizia”. Infine, mentre la Russia respingeva tutte le accuse attraverso il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, bollando la decisione del tribunale come “oltraggiosa e inaccettabile”, negli USA il Presidente Biden asseriva, al contrario, di pensare che i mandati di cattura fossero “giustificati”. Dichiarazioni, entrambe queste ultime due, piuttosto prevedibili sia nei modi che nel contenuto, dati gli autori. Tuttavia, le stesse si rivelano particolarmente interessanti ed emblematiche, se rilette fino in fondo, poiché rivelano un’analogia cruciale tra le due superpotenze nel rapporto col diritto internazionale. Peskov concludeva infatti il discorso aggiungendo che, poiché la Russia non riconosce la giurisdizione della CPI, ogni sua azione fosse da ritenersi “nulla dal punto di vista della legge”. L’inquilino della Casa Bianca, parimenti, affermava senza mezzi termini: “La questione è che la Corte internazionale non è riconosciuta nemmeno da noi, ma penso che abbiano davvero ragione”. Insomma, né gli uni e né gli altri, rispettivamente nell’esecrare e nel sostenere la decisione della CPI, reputavano quest’organo essere qualcosa più che una squadra di togati adatta a commentare i grandi avvenimenti del mondo. A volte con lucidità e altre volte meno, magari, ma comunque senza nessuna autorità per intervenire concretamente riguardo gli stessi. Un po’ come accade con le coppie in crisi che decidono di intraprendere una terapia comune per salvare il matrimonio: riluttanti ad entrare nello studio, entrambi ritengono lo psicologo simpatizzare con il coniuge-nemico, e sono disposti ad ascoltare l’esperto solo quando i suoi ragionamenti corrispondono alle proprie convinzioni. Dopo avergli attribuito una qualche autorevolezza a corrente alternata, alla fine si troveranno comunque d’accordo su un punto solo: “Ma chi è questo sconosciuto per mettersi in mezzo alle nostre questioni?”. Tornando alla geopolitica, però, è curioso aggiungere un altro tassello a questo puzzle: non solo abbiamo scoperto che sia gli Stati Uniti che la Russia si guardano bene dal sottoporsi all’autorità della CPI (solo 124 Paesi degli attuali 193 dell’ONU aderiscono allo Statuto di Roma, e anche altri giganti come Cina, India e Turchia non rientrano fra questi), ma con una breve ricerca possiamo osservare come neanche l’Ucraina stessa, pur avendo sottoscritto lo Statuto, ha mai ratificato lo stesso, per riconoscere pienamente la Corte all’interno del proprio ordinamento. Cosa che invece è stata fatta da tutti e ventisette gli attuali membri dell’Unione Europea, oltre che dal Regno Unito. Insomma, l’unico elemento di compattezza del fronte occidentale, rispetto al ruolo della Corte, fu in quel frangente la calda accoglienza dei suoi mandati di cattura verso Putin e soci.
Virando sulla stretta attualità, quattordici mesi dopo quelle richieste di cattura in direzione di Mosca (naturalmente mai esaudite), la CPI torna a farsi sentire attraverso le istanze del suo procuratore capo. Ci riferiamo naturalmente ai mandati d’arresto verso i leader di Israele e quelli di Hamas. Una decisione ampiamente giustificata dai fatti del 7 ottobre, e ancor di più dalla sanguinosa carneficina operata da Tel Aviv in risposta agli stessi. La reazione israeliana all’attentato, infatti, ha causato in questi mesi la morte di più di 34mila persone, e il ferimento di almeno altri 70mila esseri umani, quasi tutti civili. Una risposta sproporzionata, indiscriminata, crudele e terroristica. Un crimine contro l’umanità. Un genocidio. Insomma, un’operazione che dispone di tutti i requisiti necessari a portare i suoi autori di fronte a un tribunale internazionale.
Questa volta, tuttavia, le reazioni del “mondo libero” alle richieste della CPI sono state decisamente più tiepide, se non apertamente negative. Scontata la risposta di Netanyahu, che dopo aver usato per l’ennesima volta la carta dell’antisemitismo, aggiungendo i magistrati de L’Aia alla lista dei presunti nemici del popolo ebraico, per difendere la propria posizione è arrivato a definire la strage dell’IDF come “una guerra giusta che non ha eguali per moralità”. Bibi, nel non aver alcuna vergogna per gli ettolitri di sangue di cui si è macchiato in questi mesi, sembra ispirare le proprie orazioni ad un vecchio adagio sulla propaganda, erroneamente attribuito a Goebbels: “Ripetete una bugia mille volte, e diventerà una verità”. Probabilmente non conosce, o ignora di proposito, la saggezza racchiusa proprio in un antico proverbio ebraico, che al contrario recita: “Con una bugia si è soliti andare molto lontano, ma senza la speranza di tornare”. La tracotanza del primo ministro israeliano, purtroppo, non ci sorprende più. Il suo senso di impunibilità per gli orrori commessi in questa guerra accompagna la sua necessità di non essere punito per ciò che ha commesso in patria, in un contesto di pace. All’interno di una nazione, Israele, che a sua volta non riconosce l’autorità della CPI; a differenza della Palestina che invece vi si è sottoposta. Ma, a questo punto della dissertazione, immagino che tale dato non stupisca nessuno.
Forse, una maggiore curiosità potrebbero destarla le dichiarazioni degli alleati di Tel Aviv nel resto del globo. Nettissima la posizione di Biden: “Lasciatemi essere chiaro: noi rigettiamo la richiesta della CPI di arrestare i leader israeliani. Qualunque cosa questi mandati possano significare, non esiste alcuna equivalenza tra Israele ed Hamas”. Non che la Corte l’avesse mai affermata, sarebbe il caso di replicargli. Ma forse, inavvertitamente, il presidente americano ha sottolineato un dato di realtà inoppugnabile: in termini quantomeno numerici, infatti, i terroristi di Tel Aviv e quelli di Hamas non possono essere comparati, poiché i primi hanno ucciso e distrutto molto più dei secondi.
Nella civile Europa, le reazioni non sono state molto differenti. Il nostro ministro degli esteri Tajani, ad esempio, ha dichiarato in una trasmissione televisiva: “mi pare veramente singolare, direi inaccettabile, che si equipari un governo legittimamente eletto dal popolo a una organizzazione terroristica che è la causa di tutto ciò che sta accadendo in Medio Oriente”. A fargli eco ci ha pensato la ministra austriaca per gli Affari europei e costituzionali, Karoline Edtstadler, la quale ritiene che “è molto strano che il primo ministro di uno Stato democratico venga citato qui insieme ai terroristi di Hamas, che hanno causato un massacro senza precedenti nella storia”. Di fronte a una tale disonestà intellettuale, verrebbe da chiedersi se davvero nel vecchio continente non si sia diventati definitivamente più realisti del re, incapaci di discostarsi anche solo di un millimetro dalla linea a stelle e strisce. Di sicuro il pelo sullo stomaco non manca.
Vanno però menzionati, per dovere di cronaca, anche degli interventi un pochino più audaci, almeno rispetto a quelli appena citati. È il caso della ministra degli esteri del Belgio, Hadja Lahbib, che ha ricordato come “I crimini commessi a Gaza devono essere perseguiti al più alto livello, indipendentemente dagli autori”. Ha poi difeso l’operato della CPI anche la sua omologa slovena, ribadendo tramite il suo profilo X che: “I crimini di guerra e i crimini contro l’umanità, commessi sul territorio di Israele e su quello della Palestina almeno a partire almeno dal 7 ottobre 2023 in poi, debbono essere perseguiti in maniera indipendente ed imparziale a prescindere dagli autori degli stessi”. A tal proposito, è da osservare con soddisfazione come una serie di Paesi europei, coraggiosamente, stiano ora decidendo di riconoscere lo Stato Palestinese. Spagna, Norvegia e Irlanda lo faranno il prossimo 28 maggio, mentre la suddetta Slovenia si prepara a farlo per giugno, e simili intenzioni sono state manifestate da Malta. Questi sono risultati incoraggianti, sebbene non abbiano alcuna influenza concreta sull’attuale situazione in medioriente, poiché sanciscono il diritto dei palestinesi ad abitare uno Stato proprio (quello segnato dai confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni), ed automaticamente denunciano l’occupazione israeliana come un atto illegittimo. Purtroppo, questo atteggiamento non è affatto condiviso da tutti gli altri governi europei. In particolare, sono significative le frenate di Italia e Francia per bocca dei rispettivi ministri degli esteri. Per Stéphane Séjourné il riconoscimento della Palestina non è un tabù, ma a suo giudizio ora non è proprio il momento giusto per procedere in tal senso. Tajani, invece, esige che la Palestina riconosca a sua volta Israele, domandosi poi cosa sia davvero la Palestina, e paventando il rischio di riconoscere uno Stato guidato da Hamas. Insomma, non proprio delle esternazioni temerarie, da parte dei rappresentati di due tra gli Stati europei più grandi e importanti dell’UE.
Il quadro, in conclusione, appare tanto desolante quanto tristemente completo. Non tutte le occupazioni sembrano essere le stesse di fronte alla legge, e senza dubbio v’è mandato di cattura e mandato di cattura, a seconda della prospettiva. Ammesso che il diritto possa in qualche modo limitare la violenza del mondo, al momento non glielo stiamo permettendo.
Nel frattempo, a Gaza e in Ucraina, si muore. Senza possibilità di ricorso in appello.