Cedu. Condannata l’Italia per i danni alla salute per l’inquinamento dell’ex Ilva

di C. Alessandro Mauceri

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto a un ricorso effettivo tutelati dagli articoli 8 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in diversi casi riguardanti l’inquinamento prodotto dall’acciaieria ex ILVA di Taranto.
Si tratta di un precedente di importanza storica. In pratica, basandosi su questa sentenza, da oggi i cittadini dei paesi dell’Unione Europea potrebbero citare in giudizio i propri governi in tutti i casi in cui è dimostrato che i livelli eccessivi di inquinamento atmosferico abbiano causato danni alla salute. Il caso “Italia” infatti non è l’unico in Europa: negli ultimi anni sono state diverse le sentenze della Corte di Giustizia dell’Ue che hanno condannato diversi paesi tra cui Francia, Polonia, Italia e Romania, ritenuti colpevoli di inquinamento atmosferico. Ora però a ribadire la responsabilità non è stata la Corte di Giustizia, bensì la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Già nel 2019 la CEDU aveva condannato per l’Italia ritenendola responsabile di non aver protetto i cittadini che vivevano nelle aree raggiunte dalle emissioni tossiche emesse dall’impianto oggetto di polemiche da moltissimi anni. Le sentenze, scaturite in seguito ai ricorsi inoltrati tra il 2016 e il 2019, dicevano che l’Italia aveva violato l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e l’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo). In quella occasione 180 persone avevano citato l’Italia lamentando gli effetti delle emissioni tossiche delle acciaierie ILVA a Taranto sull’ambiente e sulla loro salute, ma soprattutto l’inefficacia delle misure adottate. Nella sentenza l’Italia era stata condannata “per aver violato gli obblighi di protezione della vita e della salute, per aver violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Secondo la Corte “la persistenza di una situazione di inquinamento ambientale” aveva messo in pericolo la salute dei richiedenti e in generale quella dell’intera popolazione che vive nelle aree a rischio.
La CEDU ha fatto riferimento anche ad un documento dello scorso anno nel quale il Comitato dei ministri europei ribadiva che “le autorità italiane non avevano fornito informazioni precise sulla messa in atto effettiva del piano ambientale, un elemento essenziale per assicurare che l’attività dell’acciaieria non continui a rappresentare un rischio per la salute“.
In attesa del controllo sullo stato di esecuzione della sentenza da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che si riunirà per un nuovo esame del caso nel mese di giugno, il governo italiano ha presentato lo scorso 5 aprile nuovi elementi sull’attuazione del piano ambientale.
C’è da chiedersi però se dopo queste sentenze non cominceranno a fioccare richieste di risarcimento danni non solo per la zona di Taranto ma per tutti i SIN, i Siti di Interesse Nazionale, presenti nel Bel Paese. E in Europa. Nel 2004 l’Unione Europea pubblicò la direttiva 2004/35/CE, una norma poco applicata per un motivo molto semplice: ribadisce il concetto che “chi inquina, paga”. In altre parole a farsi carico di tutte le conseguenze del danno ambientale dovrebbero essere in prima battuta i diretti responsabili. Ma visto che dei siti contaminati (circa 500 mila in tutta Europa, secondo alcune stime) i governi non hanno fatto rispettare questa regola, sono loro ad essere diventati responsabili. E a dover pagare per i danni prodotti. Ma questo significa intervenire in milioni di siti! Secondo l’agenzia europea per l’ambiente EEA, nel 2011 la contaminazione locale del suolo riguardava 2,5 milioni di siti potenzialmente contaminati nel SEE-39. Di questi solo il 45% è stato identificato. E solo il 15% di 342mila siti identificati sarebbe stato bonificato. E a farlo non sono i responsabili dei danni. Molto spesso sono gli stati: in media “il 42 % della spesa totale per la gestione dei siti contaminati proviene dai bilanci pubblici”. Spese che in barba al concetto “chi inquina paga” gravano sui cittadini, in media per lo 0,041% del PIL dei vari paesi di cui circa l’81% delle spese nazionali annuali per la gestione dei siti contaminati è speso per misure di bonifica, mentre solo il 15% è speso per indagini in loco.