di Giuseppe Gagliano –
Alla COP30 Lula celebrerà la rivoluzione ecologica del Brasile, ma fuori dalle sale climatizzate dei summit internazionali, la realtà parla un’altra lingua: fabbriche chiuse, lavoratori licenziati, tecnologie importate a prezzi stracciati, e una dipendenza sempre più profonda dal gigante asiatico. Mentre in Occidente ci si affanna a frenare il “dumping verde” cinese con dazi e dichiarazioni roboanti, Pechino si insinua laddove la governance è più fragile e i mercati meno protetti. E il Brasile è diventato il caso scuola perfetto di questa strategia predatoria: colonizzazione senza eserciti, ma con navi cariche di auto elettriche, accordi opachi e promesse disattese.
Al vertice G7 del giugno 2025, Ursula von der Leyen ha pronunciato parole che nessun leader europeo avrebbe osato dire cinque anni fa: “Trump aveva ragione sulla Cina”. Non per ideologia, ma per realpolitik. Dopo anni di sonnolenza complice, Bruxelles scopre che Pechino non solo inonda i mercati di veicoli elettrici sussidiati, ma controlla l’intera filiera dei minerali critici — dal litio al cobalto — necessari a far funzionare batterie e turbine. Lo fa con metodi che vanno dal furto sistematico della proprietà intellettuale al controllo monopolistico degli snodi logistici globali. E mentre l’UE finge di erigere barriere, il “piano d’azione sui minerali critici” del G7 non osa nemmeno citare la Cina per nome.
Mentre Stati Uniti ed Europa impongono dazi da guerra commerciale (dal 45% UE al 100% USA), la Cina si rivolge a mercati più vulnerabili e permissivi. Il Brasile è l’anello debole: grandi porti, domanda in crescita, legislazione ambientale elastica, e soprattutto élite politiche pronte a chiudere un occhio in cambio di investimenti sbandierati come “green”. Il risultato? Un’invasione silenziosa. Solo nel 2024, BYD, colosso cinese dell’auto, ha scaricato 22mila veicoli nei porti brasiliani. Le previsioni parlano di 200mila unità per il 2025, un’ondata che sta affondando i costruttori locali e sradicando posti di lavoro.
Mentre i media celebrano l’arrivo di modelli accessibili e “sostenibili”, i sindacati denunciano la desertificazione del settore manifatturiero. “Tutti bloccano la Cina, tranne noi”, protesta Aroaldo da Silva di IndustriALL Brasil. Le case cinesi, finanziate da sussidi statali, spiazzano ogni concorrenza con una logistica implacabile e prezzi da dumping: un’auto come la Seagull BYD viene venduta a 10.000 dollari. Intanto Lula ostenta buone intenzioni alla guida di una transizione energetica che ha tutte le caratteristiche di una colonizzazione tecnologica mascherata.
Il governo brasiliano ha provato a reagire solo in ritardo: dopo aver azzerato i dazi sui veicoli elettrici nel 2015, ha reintrodotto un’imposta del 10% nel 2024, con un piano graduale per salire al 35% entro il 2026. Ma è troppo poco, troppo tardi. Fino alla metà del 2025, centinaia di milioni di dollari in veicoli cinesi entreranno nel Paese senza pagare un centesimo. È il prezzo della disattenzione, o forse della complicità.
A Bahia, Lula ha celebrato con toni trionfalistici l’acquisto di uno stabilimento ex Ford da parte di BYD. Doveva essere il simbolo della rinascita industriale verde. Invece, nel 2025, lo stabilimento è ancora inattivo. Violazioni delle norme sul lavoro, assenza di fornitori locali, zero catena del valore: è greenwashing industriale. BYD esporta auto complete dalla Cina e promette posti di lavoro futuri, ma intanto il mercato brasiliano viene cannibalizzato. Lo stesso vale per Great Wall Motors, che dovrebbe iniziare a produrre il SUV Haval H6 nel 2025, ma la realtà è ben lontana dalle ambizioni.
Come denuncia da Silva: “A cosa serve un impianto se ogni singolo componente arriva dalla Cina?”.
Il paradosso è tutto politico. Lula si appresta a ospitare la COP30 in Brasile, con il cappello del leader verde del Sud globale. Ma l’80% dei veicoli elettrici circolanti in Brasile è di fabbricazione cinese. Il Paese è ricco di litio, ma non ha nessuna fabbrica di batterie. Le élite si beano di una transizione “sostenibile” mentre vendono a Pechino materie prime grezze senza controllarne la lavorazione.
Lula è prigioniero di una contraddizione: soddisfare le élite internazionali ambientaliste e salvare il lavoro industriale. Per ora, ha scelto la via più comoda: quella dei sorrisi diplomatici, dei jet privati e delle dichiarazioni retoriche.
Nel mezzo l’Occidente balbetta. Von der Leyen si accorge con anni di ritardo della trappola cinese, ma la reazione è goffa. Il G7 produce documenti inconsistenti. I leader sudamericani oscillano tra passività e complicità. E la Cina approfitta: offre prestiti, costruisce infrastrutture, compra influenza e inonda i mercati di prodotti low cost.
Ma il costo reale lo pagano i lavoratori, le comunità locali, le economie deindustrializzate, i territori svuotati di competenze. La sovranità — quella parola usata a sproposito — si dissolve sotto il peso dei container cinesi. Non servono soldati: bastano contratti, logistica e qualche ambasciatore compiacente.