Cina. Dna per tutti gli uiguri, in “uno dei posti più sorvegliati al mondo”

di C. Alessandro Mauceri

Da alcune settimane le autorità cinesi hanno deciso di condurre un’indagine a tappeto per creare un database del governo contente dati sulla popolazione sulla popolazione uiguri, una minoranza musulmana di origine turca di 11 milioni di persone.
Campioni di DNA, impronte digitali, analisi sanguigne e dati biometrici da parte di tutti i residenti della regione occidentale dello Xinjiang. E poi scansioni dell’iride e altre analisi approfondite. Secondo il sito web del governo dello Xinjiang, i dati rilevati dovrebbero essere collegati alle carte di registrazione per la casa (hukou), che già limitano l’accesso dei residenti alla sanità, all’alloggio e all’istruzione. Un documento governativo afferma infatti che “regolamentare la gestione delle schede di identificazione è la base per la creazione di un database di base della popolazione, basato sui propri numeri ID, per la regione autonoma”. Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, al programma dovrebbero prendere parte quasi 18,8 milioni di persone di età compresa tra i 12 e i 65 anni. Una sorta di screening di massa che ha costretto le autorità cinesi ad uno sforzo, anche economico, non indifferente: per raccogliere i dati biometrici di milioni di persone, secondo Human Rights Watch, sarebbero stati acquistati sequenziatori di DNA da una società statunitense.
Secondo altri invece la maggiore attenzione rivolta alla minoranza uigura dal governo di Pechino sarebbe legata al presunto pericolo terrorismo. Da anni il governo centrale accusa gli estremisti islamici di essere mandanti ed esecutori di una serie di attacchi ai funzionari governativi avvenuti nel 2014. Per questo, da allora, Pechino sta combattendo una guerra onerosa contro l’estremismo e la secessione nelle prefetture meridionali, dove la popolazione locale è ancora prevalentemente uiguri. In molte città truppe armate girano per le strade e le autorità organizzano manifestazioni per sostenere la lotta al terrorismo.
A denunciare quanto sta accadendo è anche Sophie Richardson, direttrice cinese di Human Rights Watch: “Il databanking obbligatorio di una popolazione intera di dati anagrafici, incluso il DNA, è una grave violazione delle norme internazionali sui diritti umani”, ha affermato. “È ancora più inquietante se viene fatto di nascosto, sotto l’apparenza di un programma sanitario gratuito”. Nonostante le visite e le analisi siano gratuite e “volontarie”, stando a quanto riferito da un uiguro intervistato dal quotidiano britannico The Guardian, i residenti continuano a ricevere pressioni da parte delle autorità per sottoporsi a questi esami. Non è chiaro però se i pazienti siano a conoscenza o meno del fatto che l’esame sia progettato anche per trasmettere dati biometrici alla polizia. Secondo alcune fonti, infatti, i dati raccolti potrebbero essere impiegati per “sorvegliare e schedare gli individui in base a etnia, religione, opinioni politiche e altri diritti difesi a livello internazionale come la libertà di parola”.
La provincia dello Xinjiang è da molti anni oggetto di violazioni dei diritti umani e di politiche di “assimilazione etnica” forzata per mano del capo del partito regionale Chen Quanguo. Ad esempio, nelle scuole le lezioni si svolgono solo in mandarino (invece che nelle lingue uyghur e kazako, come prima).
Nel 2009 in India si verificò una situazione analoga: venne istituito uno schema di catalogazione “volontario” dei dati personali, Aadhaar, ufficialmente presentato come un modo per ottimizzare i pagamenti e ridurre le frodi. Successivamente, questo sistema è diventato obbligatorio per molte altre operazioni, come l’apertura di conti bancari o per effettuare pagamenti di un certo importo. Anche in India i critici accusarono il governo di abusare dei propri poteri di sorveglianza e di violare i diritti fondamentali della persona.
Nello Xinjiang la situazione appare ben più grave. Il controllo sulla popolazione ha raggiunto livelli inaccettabili: alle persone capita di essere costrette a sottoporsi a controlli di polizia più volte al giorno; prima di accedere ai distributori di benzina, agli hotel e alle banche è necessario sottoporsi a procedimenti di riconoscimento facciale; le autorità hanno il potere di registrare in maniera arbitraria tutte le telefonate provenienti dall’estero e di obbligare privati cittadini a installare sul telefono un’app per controllare tutti i messaggi in entrata e in uscita.
Una situazione che ha portato un importante giornale americano a definire lo Xinjiang “uno dei posti più sorvegliati al mondo”. Le autorità esercitano un severissimo controllo addirittura sulla vendita di coltelli (arma usata in alcuni attentati): prima della vendita, sul coltello viene inciso con il laser un “QR code”, cioè un codice identificativo per risalire all’acquirente. Omer Kanat, direttore del Uyghur Human Rights Project, ha detto in una recente intervista: “È una prigione a cielo aperto. La Rivoluzione culturale è tornata e il governo non prova nemmeno a nasconderla”.
Lo Xinjiang è ormai la nuova frontiera della perdita dei diritti civili (lo stesso nome, Xinjiang, significa “Nuova Frontiera”), cui le autorità centrali non vogliono rinunciare. Le controversie tra gli uiguri e gli han cinesi nella regione non c’entrano nulla con la decisione del governo centrale di controllare ogni centimetro di territorio: questa regione è strategicamente importantissima dato che si trova al confine con otto stati (India, Pakistan, Russia, Mongolia, Kazakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan), ma soprattutto è ricca di gas e petrolio. E i soldi, in America come in India e in Cina, nello Xinjiang, non hanno razza né colore politico.