
di Giuseppe Gagliano –
Nella Cina di Xi Jinping ogni mossa politica somiglia sempre meno a una normale rotazione di incarichi e sempre più a un’operazione chirurgica, fredda e silenziosa, di epurazione del potere. Ieri la massima autorità legislativa del Paese ha ratificato la rimozione del generale Miao Hua dalla Commissione militare centrale, l’organo che controlla i vertici operativi e politici delle Forze armate. Una decisione accompagnata da accuse gravi quanto generiche: “gravi violazioni disciplinari”. Ma dietro la formula burocratica, si cela un’offensiva politica più ampia e profonda.
Miao, 69 anni, già capo del dipartimento politico dell’Esercito Popolare di Liberazione, era stato promosso proprio da Xi con cui condivideva l’esperienza amministrativa nella provincia costiera del Fujian. Eppure nemmeno i legami personali con il leader supremo hanno evitato al generale la rimozione e la scomparsa progressiva dai canali ufficiali del Partito. Una foto cancellata qui, una mancata apparizione là: in Cina l’invisibilità è spesso l’anticamera della damnatio memoriae.
Pechino presenta il caso come l’ennesimo capitolo della lotta alla corruzione nelle Forze Armate, ma il contesto smentisce la narrazione. La campagna di pulizia che Xi conduce ormai da anni non riguarda solo bustarelle e appalti truccati: è una strategia di consolidamento del potere, un meccanismo per neutralizzare qualunque potenziale centro decisionale autonomo. E l’apparato militare, per la sua natura e per il suo legame con la produzione industriale strategica, è tra i più delicati.
A essere colpiti sono infatti non solo i generali, ma anche i dirigenti del complesso militare-industriale, come confermato da fonti ufficiali e da Reuters. Il messaggio è chiaro: non esiste posto sicuro, né nel Partito, né nell’esercito, né nella burocrazia, per chi non sia allineato totalmente al pensiero del leader.
Il caso Miao non è isolato. Anche il generale He Weidong, vice comandante dell’Esercito e altro nome di peso nella gerarchia militare, non compare in pubblico dall’11 marzo. Nessuna spiegazione ufficiale. Il suo volto campeggia ancora sul sito del Ministero della Difesa, ma l’assenza dai momenti pubblici più significativi del Partito e del Politburo parla più di mille comunicati.
La macchina del Partito si muove come sempre in silenzio, facendo uso di strumenti tipici del controllo totalitario: la sospensione, la rimozione, l’oscuramento mediatico, fino alla progressiva cancellazione. E quando l’informazione ufficiale parla di “violazioni gravi”, si apre il campo delle ipotesi: sabotaggi interni? Dissensi sul riarmo? Perdita di fiducia? Non si saprà mai, ma è possibile osservare gli effet
Le epurazioni militari si inseriscono in un quadro più ampio. L’Esercito Popolare di Liberazione è parte integrante del progetto di potenza cinese: è un esercito ideologico, non solo operativo, in cui la lealtà politica precede la competenza tecnica. Lo stesso vale per l’industria della difesa, comparto chiave in cui la corruzione è vista non solo come un reato, ma come una minaccia alla coesione e all’efficienza bellica del sistema.
Il fatto che due ex ministri della Difesa siano stati rimossi per corruzione e che altre figure di vertice siano sotto osservazione o silenziosamente scomparse, suggerisce che il Partito teme più le debolezze interne che i nemici esterni. In un contesto globale teso in cui Taiwan, il Mar Cinese Meridionale, la corsa alla supremazia tecnologica e il confronto con gli Stati Uniti costituiscono un’architettura di rischi incrociati, Xi Jinping vuole un apparato militare obbediente, compatto e soprattutto privo di personalità autonome.
Ogni epurazione però è anche un sintomo. L’equilibrio perfetto del partito-Stato si regge su una combinazione di efficienza e disciplina. Ma più la repressione interna si intensifica, più emerge una crepa nel sistema: il timore della disobbedienza. Dietro la facciata monolitica del regime, si muovono tensioni profonde, frizioni tra fazioni, e probabilmente divergenze su strategie economiche e militari in un mondo in rapida trasformazione.
Il caso Miao Hua, lungi dall’essere solo un incidente disciplinare, è dunque un segnale politico. Xi Jinping non sta solo “pulendo” l’esercito: lo sta blindando contro ogni forma di deviazione o riflessione autonoma. E, nel farlo trasforma il PLA da forza militare a corpo docile e ideologizzato. Ma un esercito che non può discutere è anche un esercito che non può davvero innovare né correggere gli errori. Il rischio, nel lungo periodo, è che la paura del dissenso diventi un ostacolo alla resilienza strategica.