Cina. Un regime di violazioni sistematiche dei diritti umani

di Andrea Cantelmo

In una delle nazioni più potenti del mondo, dove lo sviluppo economico è spesso celebrato come un esempio da seguire, si nasconde una verità oscura e inquietante: la Repubblica Popolare Cinese (RPC) è teatro di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Nonostante l’immagine di progresso e modernità che il paese cerca di proiettare all’estero, la realtà interna è ben diversa, caratterizzata da repressione, censura e abusi.
La situazione nello Xinjiang, regione autonoma uigura, è diventata sinonimo di oppressione su larga scala. Qui la minoranza musulmana uigura è stata oggetto di quello che molti osservatori internazionali hanno definito come “crimini contro l’umanità”. Più di un milione di uiguri sono stati detenuti in campi di rieducazione, strutture che ufficialmente mirano a combattere l’estremismo, ma che in realtà sono luoghi di tortura, lavori forzati e indottrinamento politico. Le accuse di sterilizzazione forzata, separazione forzata dei bambini dalle famiglie, e violenze sessuali sono credibili e ben documentate, ma il governo cinese continua a negare ogni accusa con una retorica che descrive tali misure come necessarie per la sicurezza nazionale.
Altro tema importante e spesso ignorato è il dissenso che in Cina non è solo scoraggiato: è criminalizzato. Giornalisti, avvocati per i diritti umani, e attivisti vengono regolarmente arrestati, torturati o fatti sparire.
La storia di Zhang Zhan, una giornalista arrestata per aver documentato la realtà della pandemia di Covid-19 a Wuhan, è emblematica. Condannata a quattro anni di carcere, il suo caso è però solo la punta dell’iceberg di un sistema che utilizza la sicurezza nazionale come pretesto per soffocare ogni voce critica. Anche i social media sono sotto stretta sorveglianza, con una censura che si estende oltre i confini nazionali, influenzando persino le piattaforme come X (ex Twitter) e YouTube, senza parlare di TikTok. A subire questo giro di vite è stata anche Hong Kong, una volta considerata un faro di libertà e pluralismo in Asia, ma ora sta vedendo i suoi diritti erosi a un ritmo allarmante.
La legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino ha trasformato il territorio in un luogo dove le proteste sono criminalizzate, la libertà di espressione è minacciata, e i dissidenti rischiano lunghe pene detentive. La recente demolizione della “Colonna della Vergogna”, un monumento in memoria delle vittime di piazza Tienanmen, è un simbolo potente dell’intenzione di cancellare qualsiasi ricordo di dissenso.
La risposta internazionale a queste violazioni è stata spesso smorzata, guidata non tanto da principi morali quanto da interessi economici. Molte nazioni e aziende preferiscono chiudere un occhio di fronte alle atrocità commesse in Cina per non perdere l’accesso al suo vasto mercato. Questo silenzio complice ha permesso alla Repubblica Popolare Cinese di agire con impunità, mettendo in discussione la credibilità e l’efficacia degli strumenti internazionali per la protezione dei diritti umani. Al contrario, la comunità internazionale deve confrontarsi e far luce su queste realtà, mettendo in dubbio il prezzo morale pagato per il vantaggio economico e chiedendosi fino a quando sarà possibile ignorare il grido silenzioso di milioni di persone, sotto lo stivale cinese, in cerca di giustizia e libertà.