Cisgiordania. Scontri per la decisione della Corte di giustizia israeliana di abbattere la scuola fatta dagli italiani

Lo scopo è deportare la popolazione di Khan al-Ahmar per lasciare il posto a insediamenti israeliani.

di C. Alessandro Mauceri

Duri scontri tra forze dell’ordine israeliane e la popolazione di una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania. Il villaggio palestinese di Khan al-Ahmar. nel governatorato di Gerusalemme, uno dei sedici in cui è stato smembrato lo stato della Palestina, è uno di quelli considerati dalle Nazioni Unite a rischio imminente di deportazione. A far scatenare gli scontri la decisione dell’Alta Corte di Giustizia israeliana che il 25 maggio ha deciso l’abbattimento della scuola del paese. Si tratterebbe della seconda demolizione di una struttura realizzata dalla Cooperazione italiana in due anni, dopo l’abbattimento nel 2014 e sempre per mano dell’esercito israeliano del Centro per l’infanzia di Um al-Nasser, nella Striscia di Gaza. Il tutto in piena violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.
Ma più in generale molti ritengono che si tratti dell’ennesimo tentativo di espansione forzata e deportazione di massa che va avanti da decenni nella martoriata Cisgiordania dello stato d’Israele, nonostante il diritto internazionale consideri la deportazione coatta di massa come crimine di guerra, per far posto all’allargamento delle colonie di Kfar Adumim e Maaleh Adumim.
Nei giorni scorsi il tribunale ha consegnato l’ordine di sgombero ai residenti, scatenando tumulti e reazioni violente da parte dell’esercito. In particolare l’ordinanza prevedeva l’abbattimento di un edificio scolastico costruito nel 2009 dalla Ong Vento di Terra, con il contributo della Cooperazione italiana, della CEI e di una rete di enti locali lombardi e il sostegno delle agenzie Onu, e che serve a permettere di formare i bambini del villaggio. Le lezioni si svolgono in una struttura precaria realizzata con pneumatici usati e fango. Nata così non a causa della povertà che regna nell’area ma a causa della proibizione delle autorità israeliane di realizzare costruzioni in muratura in quell’area. È proprio a causa degli pneumatici usati per la costruzione che la scuola è chiamata la “Scuola di gomme”. Sebbene precaria però la Scuola di gomme è l’unica struttura che permette l’istruzione ai figli delle famiglie beduine palestinesi residenti in questa zona della Palestina occupata militarmente da Israele.
Nonostante la dichiarazione dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani che aveva ribadito che “La demolizione del villaggio è contraria al diritto internazionale”, nei giorni scorsi, secondo quanto riportato da la Mezzaluna palestinese, nei tafferugli a Khan al-Ahmar ci sarebbero stati 35 feriti e dieci le persone arrestate. Anche la Società Civile per la Palestina, una rete di associazioni italiane, aveva lanciato un appello a fine maggio al nascente governo italiano, alle istituzioni della Unione Europea, alle Nazioni Unite, a tutte le forze della società civile e alle agenzie internazionali affinché venisse revocato l’ordine di demolizione e il trasferimento della popolazione. Solo dopo il verificarsi degli scontri, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha sospeso la demolizione del villaggio (ma solo temporaneamente), come riferisce il quotidiano israeliano “Times of Israel”. Lo ha fatto dopo la presentazione di una petizione che accusa l’amministrazione israeliana, incaricata di rilasciare i permessi di costruzione in Cisgiordania, di non aver consentito alcun piano per rendere legali gli immobili oggetto della contesa e di aver rifiutato di esaminare il piano di ricostruzione presentato dagli abitanti di Khan al-Ahmar e dalla Palestinian Authority, rappresentata dal legale della comunità beduina, Shlomo Lecker. “Si è semplicemente deciso per la distruzione e il trasferimento forzato dei beduini – ha detto la direttrice dell’associazione “Vento di terra”, Barbara Archetti – ascoltando esclusivamente le richieste della controparte israeliana, spesso ritenute inaccettabili anche dagli stessi giudici della corte”.
Quanto sta avvenendo in questi giorni è solo l’ultimo di una lunga serie di scontri che rendono impossibile la vita in quest’area. Da circa un decennio gli abitanti di Khan al-Ahmar lottano contro il governo israeliano che intende demolire il loro villaggio e deportarli in una zona limitrofa ad una discarica nella cittadina di Abu Dis. E lo fa utilizzando tutti gli strumenti a propria disposizione. Da anni, Israele non consente alcun tipo di costruzione o infrastruttura da parte della popolazione palestinese nell’area (come la scuola). Non lontano da questo villaggio sempre nell’area c della zona occupata, recentemente i soldati israeliani hanno smantellato 200 metri di condutture idriche che servivano per fornire acqua alla cittadina (come riportato da Aref Daraghmeh, un attivista locale per i diritti umani). Pochi giorni prima i soldati hanno demolito un bacino artificiale per la raccolta dell’acqua piovana nel villaggio di al-Farisiyeh, nella parte settentrionale della Valle del Giordano.
Sinora, solo grazie alle ONG e ad una parte sensibile della diplomazia internazionale, le popolazioni autoctone hanno tenuto duro, divenendo un simbolo della resistenza palestinese alle violenze perpetrate dagli israeliani. L’abbattimento della scuola sarebbe un colpo mortale per la comunità che priverebbe ai più giovani ogni possibilità di godere del diritto universale all’educazione. A meno ovviamente di lasciare il proprio paese. proprio quello che le autorità sperano di ottenere. Malala Yousafzai, vincitrice del Nobel per la Pace, quando ancora era un’adolescente disse: “Prendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne. Sono le armi più potenti”. Armi che evidentemente fanno paura a molti. In Africa o in Asia e in Cisgiordania dove la situazione è particolarmente delicata. Dal punto di vista umano, ma anche geopolitico internazionale: è in ballo il piano E1 di Israele, ovvero il progetto di costruzione di nuove colonie nell’area tra la Cisgiordania, la colonia di Ma’ale Adumim e Gerusalemme. Non è un caso se delegazioni di consoli di Italia, Francia, Svezia, Belgio, Norvegia, Svizzera e Finlandia si sono recati sul posto per vedere con i propri occhi qual è la situazione. Tutto in attesa che, il prossimo mercoledì, il tribunale si esprima sulla vicenda. Intanto il destino del villaggio e di decine di bambini resta sospeso.