Coronavirus, perché questi silenzi?

di Antonio Carbonelli * –

In questi giorni non si parla che del virus. E di fronte alle teorie e fantasie d’ogni specie che tocca di sentir formulare vien da chiedersi, ed è una domanda filosofica profonda a questo punto, cosa sia scienza e cosa no.
Ma in mezzo a tutto questo parlare c’è un silenzio assordante intorno alla domanda fondamentale della vicenda, giunta a questo punto: che fare, dunque?
Le scuole hanno fatto un lavoro grandioso per realizzare il distanziamento fisico tra gli studenti all’interno degli istituti scolastici. Molti datori di lavoro hanno fatto un lavoro altrettanto importante per realizzare il distanziamento fisico tra i lavoratori, a salvaguardia della salute e della stessa produzione.
Ma com’è possibile che dopo più di nove mesi che in tutto il mondo il virus circoli e semini morti e invalidità permanenti (di questo aspetto si parla ancora poco), fuori dalle scuole, fuori dai luoghi di lavoro, attorno alle attività ricreative e soprattutto sui mezzi di trasporto (si veda la metropolitana milanese) tocchi ancora di vedere gente assiepata come prima? Nove mesi non bastano per prevedere che il virus sarebbe potuto tornare a circolare? O si presume che potesse circolare solo all’interno delle scuole e dei luoghi di lavoro?
Eppure non è ancora questo l’aspetto più sorprendente. E per dirla con un linguaggio heideggeriano, non aiuta ancora a rispondere alla domanda fondamentale che questa vicenda ci rivolge. Ripetiamo la domanda, dunque: che fare, a questo punto?
La Cina, paese che non ha ancora raggiunto la libertà politica dei paesi occidentali, ha fermato il contagio, o almeno così pare. Gli Usa, il Brasile e alcuni altri paesi lo hanno lasciato circolare liberamente (o liberisticamente), e i risultati si vedono. Ma in Europa, che si sta facendo?
Quel che più sorprende è la mancanza di una strategia di risposta alla domanda: che fare, dunque, a questo punto? Non dico a livello delle singole città, in ordine sparso; delle singole regioni, in ordine sparso; e neanche a livello governativo nazionale: questo silenzio assordante non riguarda solo l’Italia, riguarda tutti i governi d’Europa. Dove vogliamo andare? I governi europei non hanno la più pallida idea di dove andare? O c’è un non-detto, e cioè l’idea impresentabile pubblicamente di seguire anche in Europa la linea Trump-Bolsonaro?
Ancor più a fondo, gli economisti che lamentano che oggi l’Unione Europa sia un’unione solo economica e non anche politica fanno un grosso errore: oggi l’Unione Europea non è affatto un’unione economica, è solo un’unione monetaria e di libero scambio nei rapporti commerciali internazionali. Dani Rodrik rileva acutamente che nell’Ue non si vede da nessuna parte la leadership necessaria per riaccendere l’integrazione politica. Ma prima ancora, nell’Ue non si vede da nessuna parte la leadership necessaria per avviare una reale integrazione economica.

* Avvocato giuslavorista e filosofo a Brescia