Cresce (secondo uno schema consolidato) la crisi tra gli Usa e l’Iran

Per Zarif il piano vede la regia del quartetto “B”.

di Enrico Oliari

La crisi Iran-Usa è al momento nello stadio della guerra psicologica, e le diplomazie di mezzo mondo stanno lavorando affinché rimanga lì contenuta. Il quadro che appare è tuttavia quello del proposito di Washington di sistemare una volta per tutte la questione iraniana, e certo è che fino a non molto tempo fa erano 5 i paesi che dal Marocco al Kirghizistan non avevano nei loro confini la presenza degli Usa, cioè l’Iraq, dove ora ci sono le basi a seguito della guerra che ha portato alla sconfitta del partito Ba’ath, l’Afghanistan, altro teatro di guerra, la Siria, dove però sono intervenuti i russi in quanto loro zona di influenza, la Libia, dove Haftar è da più parti ritenuto essere la “longa manus” di Washington. E l’Iran, appunto.
Senza affidarsi troppo all’escatologia, vi sono segnali che indicano un percorso già seguito per le crisi precedenti: gli Usa accusano l’avversario di terrorismo internazionale (talebani, Hussein, Gheddafi, al-Assad), poi scoppiano “incidenti” imputabili sempre e comunque all’avversario, quindi si alza la tensione fino “al casus belli”, per poi colpire.
Per la crisi iraniana siamo alla fase degli “incidenti”, con navi saudite oggetto nei giorni scorsi di pesanti sabotaggi nei porti degli Emirati Arabi Uniti, poco distante da quello stretto di Hormuz che gli iraniani avevano minacciato di chiudere dopo che il 2 maggio Washington ha sospeso l’esenzione dalle sanzioni per 8 paesi tra cui l’Italia che acquistano petrolio dall’Iran, cosa che rappresenta una sonora mazzata per l’economia della Repubblica Islamica.
Tuttavia gli “incidenti” erano già stati abbondantemente previsti: lo ha ricordato il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, il quale ha affermato che “ne avevo parlato in aprile, non perché sono un genio, ma perché il B-team sta seguendo così sfacciatamente il copione di John Bolton. Dopo tutto, metà del B-team è stato co-cospiratore nella disastrosa guerra in Iraq”, quella fondata sulle inesistenti armi di distruzione di massa. Il B-team a cui il ministro iraniano si riferisce è composto da Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale Usa, dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dai principi ereditari di Arabia Saudita e Abu Dhabi, Mohammed bin Salman e Mohammed bin Zayed.
Di mezzo però c’è un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove Russia e Cina non sono disposte come in passato a dare mano libera agli Usa, nonostante le pressioni economiche e politiche. Altro elemento è la forse sopravvalutata idea che si ha negli Usa dell’opposizione iraniana, e non è detto che gli 80 milioni di iraniani non si coalizzino nonostante le divisioni contro un nemico invasore.
Intanto però gli Usa insistono con la pressione psicologica, specie dopo che Teheran ha fatto sapere che se entro 60 giorni verrà raggiunto un accordo con i partner, tornerà a rispettare i limiti sulle riserve come previsti dal Jpcoa, ma intanto si procederà con l’accumulo di uranio e di acqua pesante.
La decisione di Donald Trump lasciare l’accordo sul nucleare iraniano sottoscritto dal “5+1” (Usa, Russia, Cina, Francia, Gb + Germania) nel 2015, il Jpcoa, potrebbe così avviare un’escalation dagli esiti imprevedibili e portare ad una guerra al cui confronto quelle siriana, irachena e libica messe insieme appaiono come una passeggiata. Va detto che, come ha più volte appurato l’Aiea, l’Iran ha sempre rispettato pedissequamente l’accordo, ma Trump, che è stato eletto grazie al determinate supporto delle potenti lobby sioniste presenti nel suo paese, ha preso come “casus” il lancio nel settembre 2017 di un missile convenzionale “Khorramshahr”, nonostante tali test non rientrino nel Jpcoa.
Il presidente Usa ha già spedito nell’area la portaerei Uss Abrahm Lincoln con il suo gruppo navale, bombardieri pesanti, la nave anfibia Arlington, missili Patriot per la difesa ed oggi ha minacciato l’invio di un contingente di 120mila uomini.
Musica alle orecchie delle monarchie alleate del Golfo, che vedono nell’Iran, paese sciita, un ostacolo ai loro interessi geostrategici (si pensi al conflitto siriano) ed economici, in particolare il maxi-giacimento di gas che la Repubblica Islamica ha in comune con il Qatar, il più grande al mondo, che secondo le stime raddoppierà la produzione di gas di Teheran.