Crisi economica mondiale: la Cina con i prestiti si impadronisce di mezzo mondo

di Dario Rivolta * –

Non c’è alcun dubbio che nel dopo-Covid 19 molte cose cambieranno nel mondo. Almeno per un certo periodo i traffici internazionali di merci e di persone si ridurranno e qualcuno pensa che si metterà la parola fine a quel processo che fu chiamato “globalizzazione”. La crisi e la chiusura delle frontiere hanno convinto molti governi a dover ripensare a quali siano i settori e le produzioni avente carattere strategico che non potranno più essere totalmente delocalizzate. I debiti pubblici, già globalmente enormi (Cina, USA, Giappone, Italia in primis) saranno aumentati per finanziare con aiuti di Stato i settori che più hanno subito perdite causa l’impossibilità di lavorare durante lunghi mesi. Per alcune realtà questi nuovi debiti si sommeranno quindi ai debiti privati, fuori misura già prima dello scoppio dell’epidemia (Il totale di debito pubblico e privato del pianeta alla fine del 2019 arrivava al 322 percento del PIL globale), e ciò pone un pericoloso interrogativo sulla tenuta di tutto il sistema finanziario mondiale.
Chi è tuttavia destinato a soffrire certamente più di altri saranno i Paesi economicamente arretrati, specialmente quelli in via di sviluppo che stavano approfittando della crescita mondiale vendendo le materie prime di cui erano e sono ricchi. Gli investitori mondiali che avevano dirottato verso di loro grandi capitali hanno già cominciato a ritirarsi, disinvestendo per la paura di implosioni e la sicura incapacità dei governi locali di farvi fronte. Nigeria, Sud Africa, Kenya, Turchia e tanti altri hanno visto il valore delle loro monete crollare, mettendo a grave rischio la loro capacità di ripagare i prestiti internazionali ricevuti. Poveri di riserve in valuta straniera, si sono allora rivolti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Quest’ultima ha già concesso da marzo ad oggi aiuti straordinari a 39 Paesi per un valore di ben 14 miliardi di dollari e le due istituzioni hanno in corso richieste da altri 40 Stati. Poiché è sotto gli occhi di tutti quale sarà la difficoltà a rimborsare i prestiti ottenuti in precedenza dai Paesi più ricchi, il FMI ha chiesto al gruppo del G20 di sospendere almeno il pagamento degli interessi dovuti. In linea di massima c’è stato un consenso generale, salvo da parte della Cina che ha avanzato dei distinguo.
Pechino è alle prese con suoi propri problemi finanziari interni dovuti alla guerra dei dazi, alla sovra-produzione e a un debito privato interno che sta sfuggendo al controllo. Di conseguenza sta posticipando la maggior parte di tutti i nuovi investimenti legati allo sviluppo della Nuova Via della Seta. Tra il 2013 e il 2017, al fine di “comprare” il consenso dei Paesi inclusi nel progetto, aveva prestato almeno 120 miliardi di dollari a più di 60 Paesi in via di sviluppo e, con gli ulteriori prestiti concessi nel 2018/2019, si stima che il credito cinese verso questi Stati arrivi ad almeno 135 miliardi. La Cina ha dichiarato che questi prestiti rientrano in un tipo di contratto considerato “preferenziale” e non potranno quindi essere inclusi nel pacchetto di quelli cui sarà concessa la dilazione del pagamento degli interessi.
A questo punto è bene ricordare che gran parte di questi “investimenti” sono in realtà prestiti finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche nei settori delle telecomunicazioni o dei trasporti e sono stati effettuati dalle aziende cinesi o direttamente dal governo solitamente attraverso la EXIM Bank cinese. In quasi tutti questi contratti esiste una clausola che prevede che, qualora il ricevente non sia in grado di rimborsare i prestiti dovuti nel tempo e nei modi pattuiti, le opere realizzate con quei fondi diventeranno di proprietà cinese. Un esempio eclatante di come questo meccanismo funzioni lo si è avuto a Ceylon ove i cinesi hanno finanziato la costruzione del porto di Hambatota, sulla costa est dell’isola. Poiché l’operazione si è rivelata poi infruttifera (il porto non ha mai guadagnato abbastanza da coprire perfino i costi di gestione), il governo di Colombo non è stato in grado di ripagare quanto dovuto. Conclusione: la Cina ha ottenuto la gestione esclusiva del porto per propri scopi, civili e militari, per 99 anni concedendo solo così una dilazione dei pagamenti dovuti.
Va pure ricordato che i prestiti cinesi, pur generosi nel loro ammontare, non sono a basso costo. La stessa Cina riceve ancora fondi dalla Banca Mondiale con tassi di interesse poco superiori all’1% e presta, invece, denaro a propria volta tra il 3 e il 6%. È vero che le cifre che Pechino riceve dalla BM non superano i 16 miliardi e rappresentano quindi un valore molto inferiore alle cifre che offre a Paesi terzi, ma resta il fatto della condizione capestro relativa allo switch proprietario. I Paesi più poveri o in via di sviluppo sono particolarmente sensibili alle offerte cinesi perché arrivano senza condizioni legate alla situazione dei diritti umani in loco e senza nemmeno essere troppo fiscali sulla potenziale solvibilità del debitore. Per quanto riguarda i diritti umani la Cina ha sempre dichiarato pubblicamente di non volere intromettersi nelle questioni di politica interna di altri Paesi soprattutto perché non ha mai voluto che lo si facesse nei confronti dei trattamenti disumani che lei stessa applica verso le proprie minoranze. Per i crediti però è difficile immaginare che li conceda ad occhi chiusi senza curarsi prima della solvibilità del ricevente i prestiti. Se si ritorna, tuttavia, a quella particolare clausola citata poco sopra, allora si fa strada una qualche spiegazione: molti dei paesi debitori si trovano oggi ad avere debiti con la Cina per cifre importanti e in percentuali molto elevate rispetto al proprio Prodotto interno lordo. Il Pakistan, ad esempio, deve a Pechino 21 miliardi di dollari che corrispondono al 7% del PIL. Gibuti, dove la Cina ha stabilito la propria prima base militare marittima lontano dalle proprie coste, ha debiti con la sola Cina che arrivano all’80% del proprio PIL. Anche la grande Etiopia ha ipotecato il proprio PIL a favore dei cinesi per ben il 20%. Il Kirghizistan, aiutato anche da Mosca che lo considera uno dei propri punti strategici, deve alla sola Cina il 40% del prodotto nazionale lordo.
Se si mettono insieme le due cose, cioè l’aver prestato forti somme di denaro a Paesi già indebitati e considerati a rischio di default e l’attuale rifiuto di seguire la richiesta della Banca Mondiale e del Fondo Monetario di posticipare il pagamento degli interessi a lei dovuti, nasce il pesante sospetto che le cose siano legate.
Che la Nuova Via della Seta sia ben lontana dall’essere un’operazione puramente economica era già evidente a tutti gli analisti internazionali ma, soprattutto nei momenti di crisi, è ancora più facile che i nodi vengano al pettine. Se guardiamo ciò che la Cina sta facendo in Europa centrale e orientale di sospetti ne nascono anche altri. Nella piccola Moldavia ci sono quasi cento società cinesi che hanno aperto i loro uffici. Cosa mai ci faranno così tante società in un Paese povero e di soli 3,5 milioni di abitanti? Forse ce lo potrebbe spiegare il nostro lungimirante ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.