Crisi in Moldavia

di Dario Rivolta * –

Non c’è più soltanto il Venezuela ad avere contemporaneamente due presidenti che, delegittimando l’altro, pretendono di essere l’unico vero rappresentante democratico. In Moldavia i tre milioni e mezzo di abitanti con la maggiore povertà di tutta l’Europa non hanno soltanto due presidenti ma anche due governi.
Pochi giorni fa scrivemmo del difficile tentativo del presidente, Igor Dodon, di formare una maggioranza parlamentare in grado di dare vita ad un nuovo governo dopo le elezioni del febbraio scorso. In verità eravamo poco ottimisti che ci riuscisse, anche perché erano già passati quasi tutti i 90 giorni che la Costituzione poneva come limite massimo dopo l’insediamento dei nuovi deputati. Contrariamente alle nostre previsioni e proprio l’ultimo giorno utile, Dodon, il cui Partito Socialista aveva ottenuto il maggior numero relativo dei voti, era riuscito a convincere Maia Sandu, la co-leader della coalizione ACUM (ufficialmente pro europea) a sottoscrivere un accordo e dare così maggioranza e relativo governo al paese. Si è trattato di una soluzione non scontata perché, per la prima volta, una forza pro-Mosca e una pro-Bruxelles decidevano di governare insieme. I socialisti avrebbero ottenuto la presidenza del Parlamento e alcuni ministeri minori, Maia Sandu sarebbe diventata Primo Ministro e avrebbe ottenuto per il proprio partito i ministeri più importanti. Il commissario dell’Unione Europea per la Politica di Vicinato, Johannes Hahn, e il responsabile Usa per l’est Europa, Brad Freden, avevano preso atto positivamente della soluzione. Lo stesso presidente russo Vladimir Putin si complimentò con Dodon e con la Sandu per l’accordo raggiunto.
Avevano però fatto i conti senza l’oste. Durante i 90 giorni in cui ebbero luogo le consultazioni, Plahotniuc, capo del Partito Democratico di Moldavia al potere da ormai da diversi anni, era stato rifiutato come partner di governo sia da ACUM che dai socialisti. Aveva perfino tentato un accordo diretto con Mosca promettendo al Cremlino, lui che aveva sempre sparato a zero contro i russi, di re-orientare il proprio paese verso la Russia e di creare una federazione con la Transnistria. A Mosca però nessuno gli dette credito. L’uomo è il più ricco del paese possiede quattro delle cinque reti televisive nazionali e ha alle proprie dipendenze molti sindaci, magistrati e deputati. Il motivo per cui nessun altro partito voleva allearsi con il Partito Democratico era dovuto alla consapevolezza che esso fosse proprio l’emblema e la sede principale dell’enorme corruzione diffusa nel paese. Un nuovo governo formato da due forze che avevano basato la propria campagna elettorale in gran parte contro la pervasività del suo potere e del suo malaffare l’avrebbe sicuramente mandato a giudizio per corruzione e malversazione assieme ai suoi più vicini accoliti, ponendo così fine alla sua carriera di oligarca. È quindi comprensibile che lui abbia tentato un ultimo colpo di coda.
Se l’8 giugno si annunciava la formazione della maggioranza, lo stesso giorno la Corte costituzionale, piena di giudici notoriamente al soldo di Plahotniuc, dichiarava che quella coalizione era incostituzionale essendo, a loro dire, stata formata dopo che i 90 giorni erano già trascorsi. Non paghi, il giorno successivo i giudici dichiaravano decaduto anche il presidente Dodon, che pure era stato eletto con un voto popolare diretto più di un anno fa, e nominavano al suo posto il primo ministro uscente Pavel Filip invitandolo a sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Filip, notoriamente vicino Plahotniuc, era sempre stato considerato l’interlocutore principale della Commissione europea.
Naturalmente sia Dodon che Maia Sandu hanno rifiutato la sentenza della Corte costituzionale e lo stesso Parlamento l’ha dichiarata formalmente illegittima, dando così il via ad un grave scontro istituzionale. In una dichiarazione congiunta Francia, Germania, Polonia, Svezia e Gran Bretagna hanno espresso il loro sostegno verso il Parlamento e il 10 giugno la Russia ha fatto altrettanto. Putin in persona ha dichiarato che Mosca avrebbe sostenuto il presidente Dodon e i partner della nuova coalizione.
Immediatamente Pavel Filip ha fatto votare dal suo “governo” una risoluzione che trasferisce l’ambasciata moldava in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, nell’evidente tentativo di cercare di ingraziarsi il sostegno americano e di Israele. Va notato che solo la Romania tra tutti i Paesi europei aveva fatto la stessa cosa e la decisione di Filip mira anche a cercare una copertura politica da Bucarest. D’altra parte i rumeni puntano da tempo a considerare la Moldavia un cortile di casa, tanto è vero che hanno distribuito ai moldavi un milione di passaporti rumeni che ha trasformato, di fatto, quegli individui in “cittadini europei”.
Si tratta ora di vedere cosa farà Bruxelles: continuerà a sostenere, come ha fatto fino a poco fa, il vecchio – nuovo governo di Pavel Filip (e quindi si schiererà implicitamente con l’oligarca Plahotniuc) oppure, come ha chiesto perfino l’OLP protestando contro il trasferimento dell’ambasciata, interromperà il processo di integrazione politica ed economica della Moldavia in Europa?
Durante tutta la campagna elettorale Dodon aveva sostenuto di volere mantenere il proprio paese in una posizione di equidistanza (o, meglio, equi-vicinanza) tra Europa e Russia. Il fatto che il nuovo governo ACUM/socialisti sia stato avallato sia da alcuni paesi europei sia da Mosca lascerebbe intendere che un dialogo sulla questione possa essere possibile. Naturalmente bisognerà attendere di capire quale sarà la posizione ufficiale di Bruxelles e, soprattutto, quella degli americani.

Pavel Filip.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.