Donne sfruttate: così l’India è tra i primi produttori di abbigliamento

di C. Alessandro Mauceri –

Uno degli aspetti peggiori dell’internazionalizzazione dei mercati è la perdita di ogni controllo da da parte dei compratori su chi e soprattutto come producono la maggior parte dei beni in commercio. Anche nei casi peggiori.
Quasi mai chi compra valuta cosa ha reso un oggetto prodotto dall’altra parte del pianeta, un capo d’abbigliamento ad esempio, così economico rispetto ad altri prodotti realizzati in loco. Una differenza di prezzo a volte sorprendente, quasi inspiegabile, ma che in un periodo di crisi come quello attuale (nonostante i proclami del politico di turno) passa in secondo piano.
Una differenza di prezzi che non è sfuggita ad un ricercatore americano Siddharth Kara del Blum Center for Developing Economies dell’ Università di Berkeley, in California, che ha deciso di analizzare come mai certi prodotti possano costare così poco. Il risultato è stato pubblicato nei giorni scorsi nello studio “Tainted garments the exploitaion of women and girls in India’s home-based garmen sector”.
Kara ha concentrato la propria attenzione sul settore dell’abbigliamento in India e sulle condizioni di lavoro delle donne e delle ragazze che vi lavorano. È risultato che le condizioni di sfruttamento cui sono soggette sono una delle principali cause del loro status di perenne subordinazione e oppressione. Totale assenza di contratti di lavoro, natura informale del lavoro, salari quasi sempre ridicolmente bassi e condizioni di sfruttamento sia per ciò che riguarda gli orari le condizioni di lavoro sono quasi la norma. E le lavoratrici non hanno praticamente alcuna strada per cercare un risarcimento per condizioni abusive o sleali.
Spesso si tratta di lavoratrici di sesso femminile che lavorano da casa. I loro contatti, ossia chi subappalta i lavori, al contrario sono quasi sempre maschi. Quasi del tutto assenti regole o leggi dello stato per quanto riguarda le loro condizioni di lavoro: i ricercatori hanno scoperto che i lavoratori di abbigliamento a casa in India sono quasi sempre provenienti da etnie storicamente oppresse che lavorano in condizioni di semi-schiavitù: difficilmente riescono a guadagnare $0,15 all’ora, un salario troppo basso per molti paesi africani, per la “nuova” Cina, ma anche per molte categorie di lavoratori nella stessa India.
É questo stato di cose che, secondo i ricercatori, avrebbe consentito all’industria indiana dell’abbigliamento di essere la seconda più grande produttrice ed esportatrice al mondo dopo la Cina. Sono almeno 12,9 milioni i lavoratori diretti in contesti formali di fabbrica, ma a loro si devono aggiungere milioni e milioni di persone che lavorano da casa in contesti “informali”, ed è proprio questo che rende stimare il loro numero quasi impossibile.
Come facilmente prevedibile, i principali mercati per le esportazioni indiane di abbigliamento sono gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea, che acquistano quasi la metà (47%) della produzione totale di abbigliamento del paese. Circa l’85% dei 1.452 capi di abbigliamento analizzati nella ricerca è stata lavorata esclusivamente nelle catene per l’esportazione di prodotti di abbigliamento negli Stati Uniti e nell’Unione europea, il restante 15% ha lavorato in un mix di esportazione e produzione. Come è stato documentato dalla ricerca sono decine e decine i marchi famosi che si servono della manodopera indiana. Molte aziende cercano di mantenere condizioni dignitose nelle fabbriche dei loro fornitori in India. Ma controllare realmente le condizioni di lavoro dei subfornitori è quasi impossibile. Spesso alle lavoratrici a casa vengono affidati lavori rifinitura, il “tocco finale” su un indumento, come il ricamo o il disegno o delle frange con perline o altro.
Esistono enormi differenze tra Nord e Sud del paese. Altissima la percentuale di sfruttamento minorile: la media del paese è del 17,3% dei casi verificati (19,3% al Nord e circa 11% al Sud). Anche la disparità dei compensi è notevole: mediamente le lavoratrici vengono pagate meno della metà degli equivalenti di sesso maschile. Ad una lavoratrice di questo settore viene concessa mediamente una paga giornaliera (per otto ore di lavoro senza contratto, senza diritti, senza garanzie né altro) di 1,12 dollari. Meno di quella che secondo le NU è il reddito minimo per essere considerati in povertà estrema! Eppure, per oltre la metà delle lavoratrici, questa situazione pare essere tollerabile (il 61%, ma nel Sud questa percentuale sale oltre il 98%). Il motivo, forse, è da cercare ancora una volta nelle disparità sociali così radicate in India: per molte di queste donne trovare un lavoro “normale” è quasi impossibile a causa della casta a cui appartengono. Tranne che al Sud, molte di loro (i due terzi) vorrebbero cambiare lavoro, ma non possono. Così continuano a vivere quasi schiavizzate, incapaci di mettere da parte pochi spiccioli (poco più del 9 per cento di loro ci riesce) senza nessuna cura medica pagata, nessuno contratto che preveda una futura pensione quando saranno anziane e non potranno più lavorare o alcuna tutela o salvaguardia nel caso dovessero farsi male.
Di tutto questo, ai milioni e milioni di compratori occidentali di capi di abbigliamento realizzati in India grazie alla maestria di queste lavoratrici, importa poco. Al massimo ci si stupisce di come possa essere così basso il prezzo di un vestito “decorato a mano”. Un prezzo che, in paese europeo, non basterebbe nemmeno a pagare il costo della materia prima, forse neanche del packaging. Ma poi, complice la crisi ormai diffusa in quasi tutti i paesi sviluppati, o forse per l’apatia che è uno dei peggiori effetti della mondializzazione, non ci si pensa più. E si finisce per comprare quell’abito o quella sciarpa così finemente decorata, frutto del lavoro di mani esperte sebbene giovani, anzi giovanissime. Forse fin troppo. Ma anche di questo, come di tutto il resto, a nessuno sembra importare.