di Giuseppe Gagliano –
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno alzato la posta nella loro guerra senza quartiere contro i Fratelli Musulmani. L’8 gennaio il gabinetto emiratino ha inserito nella sua “lista del terrorismo” 19 soggetti con sede nel Regno Unito: 11 individui e otto entità, accusati di legami con il movimento islamista. Una decisione che non sorprende, ma che apre interrogativi sui metodi e sulle conseguenze di questa politica.
Per comprendere questa mossa bisogna fare un passo indietro, alla radice della diffidenza emiratina verso i Fratelli Musulmani. Abu Dhabi vede nel movimento un rischio esistenziale, non solo per la sua ideologia islamista, ma soprattutto per la sua capacità di mobilitare consensi in un’area segnata dall’instabilità politica. Dopo la Primavera araba del 2011, i Fratelli Musulmani hanno capitalizzato sul caos, guadagnando terreno in Egitto, Tunisia e altrove. La vittoria di Mohammed Morsi alle elezioni presidenziali egiziane del 2012 fu vista dagli Emirati come il preludio di un’espansione regionale pericolosa.
Da qui il sostegno incondizionato al generale Abdel Fattah al-Sisi, l’uomo forte del Cairo che depose Morsi con un golpe militare nel 2013. Per gli Emirati, Sisi non era solo un alleato, ma un argine contro l’avanzata di un movimento percepito come una minaccia diretta. Non è un caso che già nel 2014 Abu Dhabi abbia formalmente designato i Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica.
La recente inclusione di individui e entità con sede nel Regno Unito nella lista emiratina del terrorismo è significativa. Londra, con la sua storica apertura alle organizzazioni islamiste in esilio, è da tempo considerata un rifugio sicuro per attivisti e finanziatori del movimento. Per gli Emirati questa “tolleranza” equivale a un assist indiretto al terrorismo.
Gli osservatori internazionali tuttavia sottolineano che molti dei gruppi colpiti dalle sanzioni emiratine operano in ambito politico e sociale senza evidenze di attività violente. Ma per Abu Dhabi, la distinzione tra islamismo politico e terrorismo è irrilevante. La narrativa emiratina è chiara: ogni forma di sostegno ai Fratelli Musulmani alimenta l’instabilità regionale.
La lotta degli Emirati contro i Fratelli Musulmani non si limita alle liste di proscrizione. Nel 2013, il Paese fu teatro di uno dei più grandi processi politici della sua storia. Conosciuto come il caso “UAE94”, il procedimento vide 94 attivisti – tra cui avvocati, giudici e intellettuali – processati per accuse di terrorismo. Human Rights Watch e altre ONG hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani, tra cui torture e detenzioni arbitrarie.
Queste pratiche sollevano dubbi sulla reale natura delle politiche emiratine. La lotta al terrorismo diventa, in molti casi, uno strumento per reprimere il dissenso politico e consolidare il potere.
La designazione di individui e gruppi legati ai Fratelli Musulmani come terroristi riflette anche una strategia geopolitica più ampia. Gli Emirati vogliono affermarsi come bastione di stabilità e moderazione nel mondo arabo, in contrapposizione a paesi come il Qatar e la Turchia, percepiti come sponsor del movimento islamista.
Ma questa politica rischia di avere effetti collaterali. La decisione di estradare Abdul Rahman al-Qaradawi, attivista turco-egiziano e figlio del defunto leader religioso Yusuf al-Qaradawi, ha già sollevato proteste. ONG e organizzazioni per i diritti umani denunciano violazioni del diritto internazionale e un uso strumentale delle accuse di terrorismo.
La politica emiratina verso i Fratelli Musulmani è tanto decisa quanto controversa. Mentre Abu Dhabi si presenta come un paladino contro l’estremismo, le sue azioni alimentano critiche per l’uso del pugno di ferro contro oppositori pacifici.
In un Medio Oriente in ebollizione, la lotta per l’egemonia ideologica non si gioca solo sul terreno, ma anche nei tribunali, nelle liste di proscrizione e nelle alleanze strategiche. Gli Emirati, con la loro visione intransigente, camminano su una linea sottile tra sicurezza nazionale e repressione politica. Resta da vedere se questa strategia porterà stabilità o se, al contrario, contribuirà a esacerbare le tensioni nella regione.