EDITORIALE. Il Premio Sacharov a Navalny: un altro riconoscimento che perde la brillantezza

di Enrico Oliari

Il Premio Nobel per la Pace ha da tempo perso il suo smalto, perlomeno da quando è stato assegnato ad Aung San Suu Kyi, che da leader de facto della Birmania aveva chiuso gli occhi sul massacro della minoranza Rohingya, e al presidente Usa Barak Obama, capo di quell’esercito più potente del mondo che in quel momento aveva aperti tre fronti di guerra.
La stessa sorte potrebbe capitare al prestigioso premio Sacharov, che il Parlamento europeo assegna a persone o a organizzazioni che si sono distinte nella lotta per la libertà e i diritti umani: quest’anno gli eurodeputati hanno infatti scelto di attribuirlo all’oppositore russo Alexei Navalny riconoscendone, come ha spiegato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, la “strenua campagna contro la corruzione del regime di Vladimir Putin”, e per questo “è stato avvelenato e imprigionato”. Sassoli ne ha riconosciuto “l’immenso coraggio” ed ha ribadito “il forte sostegno del Parlamento europeo per il suo rilascio immediato”.
Un’attribuzione del premio che tuttavia sa più di russofobia che di libertarismo, perché la figura di Alexei Navalny continua ad essere quantomeno controversa, e non ha tra i russi quella popolarità che in Europa e più in generale in occidente si vuole far credere.
Non occorre molto per capire chi sia Navalny, basta prendersi la briga di aprire Wikipedia: l’oppositore russo è quanto di più distante vi sia dai valori dell’Ue, basti pensare che il capo di “Russia del Futuro” è tradizionalmente xenofobico e nazionalista; nel 2008, in occasione della guerra dell’Ossezia del Sud, insultò apertamente i georgiani chiedendone l’espulsione dal paese; nel 2013 difese sul suo blog i neonazisti russi autori di raid punitivi per un omicidio compiuto da un azero, puntando il dito contro “orde di immigrati regolari e clandestini”. Inoltre le numerose denunce e i processi non sono tutti indirizzati a colpire la sua instancabile lotta per la libertà, basti vedere che tra le poche condanne passate in giudicato a suo carico vi sono quella del 2013 a cinque anni di reclusione per furto di legname insieme all’imprenditore Pyotr Ofisterov, e quella a tre anni e mezzo del 2014 per frode e riciclaggio insieme al fratello Oleg nel quadro dell’affaire “Ives Rocher”, pena sospesa con la condizionale.
Navalny non è quindi uno stinco di santo, ma anche i giudici russi hanno evidentemente peccato di intransigenza dal momento che è vero, sarebbe evaso dalla libertà condizionata, ma in modo del tutto involontario dal momento che era stato portato in coma in Germania a seguito di un tentato avvelenamento.
L’inchiesta “Ives Rocher” lo vede accusato di appropriazione indebita per essersi, stando alle accuse, intascato 4,8 milioni di dollari delle donazioni alla Fondazione anti corruzione che dirige.
Sulla Crimea, tanto cara all’Ue da imporre sanzioni alla Russia, Navalny ebbe a dire che “non è un panino al prosciutto che si può restituire”.
Più che l’amore per Navalny, dal gesto del Parlamento europeo traspare l’odio dell’occidente per Vladimir Putin, condivisibile o meno che sia. Ma con oggi, anzi, con il 15 dicembre (data della cerimonia ufficiale) tale strumentalizzazione toglierà brillantezza al Premio Sacharov.