Egitto. Regeni: in quattro dell’intelligence rischiano il processo

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Quattro tra agenti ed ufficiali dell’intelligence egiziana rischiano il processo in Italia, che con tutta probabilità si celebrerebbe in contumacia, per aver avuto responsabilità nell’omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano di cui si erano perse le tracce nella capitale egiziana la notte del 25 gennaio 2016 (anniversario di Piazza Tahrir), ed il cui cadavere era stato ritrovato con evidenti segni di tortura il 3 febbraio successivo.
I quattro, ai quali il procuratore Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco contestano a vario titolo il reato di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio, sono il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. La notifica è stata recapitata ai difensori d’ufficio italiani, dal momento che nessuno dei quatto indagati ha nominato un proprio difensore di fiducia in Italia.
La notifica agli indagati di fine indagine riporta che in base alle indagini condotte dai carabinieri del Ros e dai poliziotti dello Sco, “I quattro indagati, dopo aver osservato e controllato direttamente ed indirettamente dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016 Giulio Regeni, abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all’interno della metropolitana del Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly, lo privavano della libertà personale per nove giorni”. Per i pm Ibrahim Abdelal Sharif “al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati, abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano, con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva esercitata sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Giulio Regeni, da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte”.
Per un quinto indagato è stata chiesta l’archiviazione.