Erdogan

di Dario Rivolta *

Nessuno si stupisce nel vedere i leader politici agire con spregiudicatezza. Anche se sarebbe più gratificante immaginarli onesti, sinceri e coerenti, occorre costatare che queste virtù sono sempre più rare, se mai sono appartenute a chi ha conquistato il potere. In particolare nei rapporti tra Stati, è inutile esprimere giudizi di carattere morale su quel che i capi fanno perché quel che conta sono il livello di affidabilità di un leader e la sua presumibile volontà/capacità di rispettare i patti sottoscritti.
Se consideriamo questo ultimo punto di vista il “sultano” turco Recep Tayyp Erdogan rientra nella categoria di quelli di cui non sarebbe saggio fidarsi.
La sua vita non è certo un simbolo di coerenza o di affidabilità, eppure almeno per ora continua a godere di un certo grado di popolarità tra i suoi elettori ed è in grado di imporre le sue condizioni agli interlocutori internazionali con cui ha a che fare.

I primi passi.
Nacque in un sobborgo periferico di Istanbul, uno di quei quartieri famosi per il predominio della malavita locale. Figlio di un pilota di ferries, frequentò la scuola coranica e, appassionato di calcio, iniziò la sua carriera come calciatore con discreto successo. Da buon musulmano, appena possibile si fece crescere la barba ma la squadra in cui giocava gli chiese di scegliere tra tagliarsela o uscire dalla rosa. Finì così la sua carriera di calciatore e cominciò quella di militante islamico. Aderì presto al partito fondato da Necmettin Erbakan che sosteneva la necessità di un ritorno ai dettami della religione, chiedeva di tagliare tutti i contatti con l’allora Comunità Economica Europea, aveva rapporti con i leader pan islamisti di Bangladesh e di Pakistan e sosteneva sia i talebani afgani sia la rivoluzione Komeinista in Iran. Il giovane Erdogan si fece notare come ottimo oratore durante la prima guerra del golfo, naturalmente parteggiando per Saddam Hussein contro il “male occidentale”. Si avvicinò anche ad un gruppo sufi presente in Istanbul e i suoi contatti religiosi gli furono utili per vincere le elezioni quando si presentò come candidato sindaco nella città.
Dimostrò già da allora di essere più un pragmatico che un “fedele” e, conscio del fatto che un’identità di puro carattere islamico non gli avrebbe giovato, dichiarò che contava di più “far bene il proprio lavoro piuttosto che essere degli uomini barbuti che recitavano il Corano”. Da sindaco, non dimenticò, tuttavia, di dovere il proprio consenso soprattutto alla base islamista e proibì allora la vendita di alcool in tutti i negozi municipali cancellando in città, inoltre, la legge voluta da Ataturk che proibiva il velo alle donne che lavoravano negli uffici pubblici. Rispondendo alla domanda di un giornalista si autodefinì “l’Imam di Istanbul”.

In prigione.
Il suo comportamento preoccupò il governo laico al punto che, quando la Corte Costituzionale decise di chiudere il Partito del Benessere, lo condannò a dieci mesi in prigione. Questo fatto aumentò la sua popolarità tra i credenti e appena uscito di prigione diede vita all’attuale Partito della Giustizia e Sviluppo (AKP). Alla nascita della nuova formazione contribuirono con lui altri due ex seguaci di Erbakan: Abullah Gul e Bulent Arinc. All’epoca sostenne che ogni decisione nel partito sarebbe stata presa collettivamente poiché la politica di “un solo capo” era definitivamente tramontata (!). Per prudenza e per allargare la potenziale base di consenso i tre rinunciarono a definire il loro movimento come “islamista” nonostante nella vasta regione anatolica i loro sostenitori erano soprattutto islamici praticanti.

Primo ministro.
Nel 2002 vinse le elezioni nazionali presentandosi come difensore della volontà democratica che si batteva contro un establishment autoritario contrario alla libera espressione dei cittadini. Affermò la necessità di avvicinarsi all’Unione Europea per difendere le libertà individuali e i diritti delle minoranze e, forte del sostegno europeo, dichiarò guerra all’intromissione dei militari nella gestione dello Stato (va ricordato che essi erano gli ultimi garanti della laicità delle istituzioni). Da islamista anti-occidentale come era sempre stato si presentò a Bruxelles come “democratico conservatore” e fece entrare il suo partito nell’Alleanza dei Conservatori e Riformisti in Europa. Uno dei suoi maggiori sostenitori era diventato nel frattempo il movimento di Fetullah Gulen che godeva di una rete di militanti i quali, poco per volta, stavano infiltrandosi in tutti gli enti pubblici, nella magistratura e nelle forze armate. I vertici di queste organizzazioni appartenevano ancora al vecchio sistema laico e perciò, con la scusa dei “valori democratici europei”, Erdogan cominciò a rimuoverli per “ridare potere alla società civile”. Inventandosi una cospirazione dei militari, ne sostituì tutti i vertici e la stessa cosa fece con la magistratura pescando i sostituti nelle file dei gulenisti. Gulen era il leader di un partito islamista che voleva gramscianamente convertire dall’interno la società secolare occupandone tutti i gangli vitali (un po’ come Don Giussani in Italia con il movimento Comunione e Liberazione).

La rottura.
Il “mistico” e il politico erano però entrambi alla ricerca di un proprio potere assoluto, e a un certo punto la loro alleanza si trasformò in una aperta concorrenza. La frattura fu inevitabile. Il “sultano” divenne via via più insofferente verso quell’organizzazione che ubbidiva ad altri e cominciò a emarginare chi non rispondeva soltanto a lui. La risposta dei gulenisti fu quel tentativo di colpo di Stato che finì in un fallimento per gli insorti ma dette al “sultano” la possibilità di dichiarare uno stato di emergenza e imporre il silenzio a tutti i suoi oppositori. Anche in questo caso con un precedente “italiano”: fece cioè come, prima di lui, aveva fatto Mussolini dopo l’attentato di Bologna. Sospese la Convenzione Europea sui Diritti Umani e, già che c’era, ne approfittò per imprigionare in poche settimane decine di migliaia di pubblici ufficiali, chiudere cento testate media e annullare il passaporto a 50.000 cittadini turchi.
Dal punto di vista politico aveva già cominciato il suo riposizionamento internazionale affidandosi ad un noto professore universitario autore di libri che invocavano un ritorno alla “grandezza” turca del periodo ottomano: Ahmet Davotoglu. I predecessori erano sempre stati fedeli alleati della NATO, avevano intrapreso il cammino verso l’Unione Europea e avevano intessuto ottimi rapporti con Israele. Davotoglu ed Erdogan cancellarono tutto questo senza mai dichiararlo esplicitamente e: ruppero con Israele in nome della solidarietà islamica, si rifiutarono di consentire il passaggio delle truppe americane nella guerra contro Saddam e iniziarono rapporti sempre più stretti con la Cina, l’Iran e altri Paesi in non ottima sintonia con l’Alleanza Atlantica.
Nel 2014 Erdogan nominò Davotoglu Primo Ministro ma, ben presto, il prestigio e la crescente popolarità di quest’ultimo lo fecero percepire dal “sultano” come un potenziale concorrente e nel 2016 lo obbligò alle dimissioni. Al suo posto mise una figura di secondo piano non in grado di fargli ombra.

La nuova svolta.
Con rapporti che andavano peggiorando con Bruxelles, restato senza l’aiuto dell’organizzazione gulenista e certo di non trovare supporto dai curdi con cui in un primo momento aveva aperto un dialogo, non gli restava che aprire al Movimento Nazionalista di estrema destra. Fu con il loro aiuto che affrontò il referendum popolare (2017) sulla nuova Costituzione che gli avrebbe attribuito pieni poteri. Lo vinse e la sua vittoria fu confermata l’anno dopo con il 53% dei consensi nelle elezioni Presidenziali.
Pieno e unico padrone della scena politica turca, può agire finalmente senza più limiti e, spregiudicato come è sempre stato, si permette di fare il bello e il cattivo tempo. Favorisce la ribellione siriana, aiuta dapprima e poi scarica i terroristi dell’Isis, rompe e ricuce con la Russia, minaccia Cipro e le navi italiane che del tutto regolarmente si accingono a fare prospezioni nei mari ciprioti, fa costruire un nuovo gigantesco aeroporto ad Istanbul su un terreno di “amici” nonostante tutte le prospezioni giudicassero inadatta la zona. Lui ed i suoi famigliari sono fortemente sospettati di arricchimento personale illegale e di proteggere alcune aziende a discapito di altre non “allineate”.

Le prime crepe.
Recentemente anche i suoi ex sodali Gul e Arinc hanno pubblicamente preso le distanze da lui accusandolo di monopolizzare Stato e partito tradendo così le promesse dell’inizio. Lo stesso Gul, già presidente seppur con minori poteri, aveva prospettato l’ipotesi di candidarsi nuovamente alla presidenza contro Erdogan, salvo poi rinunciare a farlo senza spiegarne la ragione. L’economia, fino a pochi anni fa eccezionalmente florida, ha cominciato una fase discendente che non si sa quando potrà finire e la guerra in Siria, da lui stesso favorita, ha portato all’interno della Turchia più di tre milione e mezzo di profughi suscitando l’insofferenza degli autoctoni. Intanto la disoccupazione sta superando i quattro milioni di individui.
Le sue ultime mosse degne di nota sono quelle della cronaca dei nostri giorni. Ha inviato le sue truppe in territorio siriano con il dichiarato intento di impedire che si possa ricostituire l’integrità territoriale di quel Paese. Ha corso il rischio di una guerra aperta con la Russia. Ricatta l’Europa spingendo verso il nostro confine un milione di profughi siriani (per l’ospitalità dei quali aveva già ricevuto da Bruxelles ben sei miliardi di euro).
Nelle zone più arretrate del Paese il sostegno popolare verso di lui sembra tenere ma, nonostante le intimidazioni nei confronti di elettori e avversari, le ultime elezioni municipali hanno dimostrato che nei centri abitati è in forte calo. E’ possibile che, qualora l’economia interna non riuscisse a ripartire, anche l’essersi impadronito di tutti i mezzi di comunicazione non basterà a garantirgli la permanenza al potere.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.