Etiopia. Hailemariam Desalegn si dimette

di Valentino De Bernardis

Giornata storica in Etiopia, e per certi aspetti giornata storica per tutta l’Africa. In un continente in cui i rappresentati delle istituzioni, dal Gabon al Ruanda, da Gibuti alla RDC, usano interpretare o modificare le Costituzioni per prolungare la loro presenza alla guida dei rispettivi paesi, il primo ministro etiope Hailemariam Desalegn ha annunciato nel primo pomeriggio del 15 febbraio di aver consegnato le proprie dimissioni.
Una svolta inaspettata per la tempistica, ma prevedibile nella sostanza. Schiacciato da pressioni esterni, quali le continue manifestazioni di piazza in Amhara, Oromia e Somali, ed interne, come le latenti tensioni politico-etniche-sociali-economiche del suo soggetto politico di riferimento (Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope-EPRDF), un passo indietro di Desalegn era quantomeno una delle opzioni sul tavolo.
Le sopracitate pressioni esterne hanno accompagnato gli ultimi due anni e mezzo del governo Desalegn. Arresti di massa, limitazione dei diritti politici e proclamazione dello stato di emergenza per dieci mesi (ottobre 2016-agosto 2017) hanno avuto l’effetto di esacerbare le posizioni tra maggioranza e opposizione. Le recenti concessioni governative, come la liberazione di oltre seimila dissidenti politici, tra cui personaggi di primo piano della politica e della stampa, hanno rappresentato solo un palliativo di brevissimo periodo. Lunga catena di insuccessi di cui Desalegn, a torto o a ragione, è il capro espiatorio.
Ulteriore campanello d’allarme di una prossima evoluzione del quadro politico etiope è stata la decisione lo scorso autunno di rinviare l’undicesimo congresso dell’EPRDF. L’appuntamento chiave per la gestione del potere ad Addis Abeba, tenuto per consuetudine in prossimità del capodanno etiope (settembre), è stato posticipato di sei mesi, a marzo 2018 senza una reale motivazione. Una mossa di politica interna passata erroneamente in secondo piano sui media internazionali, dato che l’unico precedente si era registrato nel settembre 2012 (per il nono congresso), a causa della morte dell’allora primo ministro Meles Zenawi, a riprova dell’eccezionalità del fatto, a cui era seguito un ampio dibattito interno alla ricerca di un sostituto condiviso da tutta la coalizione.
Si è cosi arrivati alla giornata del 15 febbraio, dove per la prima volta dal ritorno della democrazia, un primo ministro in carica rimette il proprio mandato nelle mani del parlamento. Una pagina nuova tutta da scrivere, e su cui si possono fare solo delle supposizioni dei prossimi passi. Se non vi saranno sorprese dell’ultimo istante, la ratifica delle dimissioni da parte del parlamento e dell’EPRDF saranno una pura formalità. Ma chi prenderà il posto lasciato vacante da Desalegn? Immaginare elezioni anticipate non è realistico. L’EPRDF non ha alcun interesse ad andare alle urne ora che le opposizioni stanno riacquistando sempre maggiori spazi politici. L’ipotesi più naturale, e forse più probabile per arrivare pronti al congresso di marzo, è l’avvicendamento con l’attuale vice primo ministro Demeke Mekonnen Hassen, per traghettare il paese fino al 2020. Si tratterebbe di una transizioni delicata che se da un lato assicura continuità in campo economico dall’altro apri il fianco ad ulteriori considerazioni di carattere politico-sociale. Si passerebbe difatti da un capo del governo cristiano (protestante) del sud, ad uno musulmano del nord, scuotendo significativamente il difficile equilibrio etnico, religioso e geografico su cui l’Etiopia da sempre basa il suo essere Stato. Se la questione etnica e geografica rappresentano delle istanze su cui in qualche misura le parti in causa possono arrivare ad una sintesi condivisa, quella religiosa rappresenta per tradizione e storia quella più insormontabile.
Non rimane altro che rimane a guardare l’evolversi degli eventi. L’unica cosa certa, sebbene per alcuni possa sembrare un azzardo, è la stabilità politica dell’Etiopia, sorretto da una coalizione di governo nonostante tutto ancora molto forte.
Intanto ha avuto inizio il nuovo corso (se così si può chiamare) con la proclamazione di un nuovo stato di emergenza per tre mesi.

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