Filippine. La Cina vuole le isole, ma la difesa Usa resta sulla carta

di Dario Rivolta * –

Vorrà la NATO davvero essere al nostro fianco nel caso, per ora fortunatamente improbabile, che qualcuno attentasse alla sovranità del nostro Paese e dei nostri confini?
Se leggiamo il Trattato, non dovremmo avere alcun dubbio. L’articolo 5 garantisce che qualunque Stato membro fosse attaccato da una forza esterna tutti gli altri interverranno militarmente, ed immediatamente, per difenderlo. Quando si dice tutti gli altri si intende in primis, ovviamente, gli Stati Uniti. Anche se esiste la regola dell’unanimità e, in linea di principio, sulle decisioni gravi la voce della Grecia dovrebbe valere quanto quella degli Stati Uniti è bene non farci illusioni: la NATO è un’organizzazione a guida americana. Tutti lo hanno sempre saputo e accettato perché a tutti noi conveniva. Essere protetti dall’ombrello NATO dal dopoguerra in poi ci ha consentito di risparmiare sulle spese militari e di dedicare la nostra spesa pubblica a cose che ci sono sembrate più necessarie. È anche così che in tutta Europa ci siamo permessi il nostro attuale welfare. Era chiaro, o almeno così ci è sempre sembrato, che alla nostra difesa avrebbero provveduto soprattutto gli USA. Certamente abbiamo dovuto rinunciare ad un bel po’ della nostra sovranità, ma abbiamo sempre pensato che ne valesse la pena.
È davvero così? Se fossimo sotto attacco, la NATO ci difenderà?
Quel che sta accadendo molto lontano da noi, pur con tutte le diverse caratteristiche, ci obbliga a porci questa domanda. Basto vedere a quanto sta accadendo nel lontanissimo Mar Cinese Meridionale e in particolare nelle Filippine.
Nel 1951 Washington firmò un patto con il governo di quel Paese che recitava: “(nel caso di-n.d.r.) …un attacco armato sul territorio metropolitano di una della Parti, o nei territori delle isole sotto propria giurisdizione nel Pacifico, o contro le proprie forze armate, navi o aeroplani nel Pacifico…” gli Stati Uniti si impegnano a intervenire.
A partire dalla fine degli anni ’80 i cinesi hanno cominciato ad avanzare pretese su alcune isole che le Filippine avevano sempre considerato proprie e pochi anni fa le forze armate di Pechino si sono impadronite delle isole Spratly e di alcuni scogli della zona. Poi hanno allargato quegli stessi scogli con enormi opere di ingegneria trasformandoli in altre isole e stabilendovi basi militari. Manila, dopo alcuni tentativi pacifici di far valere le proprie ragioni, si è rivolta alla Corte Permanenti di Arbitrato che sta a L’Aia e, nel 2016, quella Corte ha sentenziato che la Cina non poteva vantare alcun diritto su quei territori e acque sotto contestazione. Naturalmente Pechino se ne è infischiata ed ha continuato le proprie operazioni con navi militari e pescherecci come se niente fosse successo. Quando sorse il problema gli Stati Uniti si rifiutarono di intervenire adducendo che la loro politica, in caso di contestazioni territoriali, era quella di affidarsi al diritto internazionale e di non prendere posizione. In realtà, non ebbero lo stesso atteggiamento quando il problema toccò le isole giapponesi Senkaku nel Mar Cinese Orientale, rivendicate anche da Cina e Taiwan. Infatti, nel 2015, Obama prese nettamente posizione a favore di Tokyo e la querelle sembrò spegnersi.
In merito al Mar Cinese Meridionale, anche l’amministrazione Clinton nel 1991 aveva mostrato un approccio meno indifferente, confermando che le isole in quell’area erano comprese nel Trattato con le Filippine.
Un caso ancora più scabroso riguarda le “secche” marine dette Scarborough. Si tratta di una realtà a circa 210 chilometro da Luzon (l’isola più grande delle Filippine, a nord) che dal 1900, dopo la vittoria nella guerra contro la Spagna, era proprietà americana. Le Filippine ne acquisirono il controllo formale quando fu concessa loro l’indipendenza nel 1946. In cambio concessero agli Stati Uniti l’uso di un’area attorno a quei luoghi per esercitazioni congiunte con uso di artiglieria navale. Nel 2012 la Cina si impadronì di quelle “secche” ma gli Stati Uniti tacquero. Solo nel 2016 Obama diffidò Pechino dal trasformare le scogliere in un’altra isola artificiale. Ciò detto e nonostante un tribunale ONU avesse confermato che quelle acque appartenevano alle Filippine, i cinesi impedirono (e impediscono) a Manila di esercitare il suo diritto a svolgervi ricerche petrolifere. Non solo: a tutt’oggi, aziende cinesi stanno facendo lavori, agendo come se ne fossero proprietari, in due zone di Luzon che nel passato furono perfino due importanti basi militari americane. Si tratta del campo di aviazione Clark e della base navale Subic Bay. Ufficialmente si tratterebbe di operazioni puramente civili ma nessuno può avere la certezza che non siano, o non saranno trasformate, in capisaldi militari.
Tutto sta avvenendo nonostante l’esistenza di un Trattato di mutua difesa che non è mai stato disdetto e, al contrario, più volte politicamente riconfermato.
Le Filippine, così come tutti i Paesi europei presi singolarmente, sono uno stato militarmente debole e, come succede ad un pacifico cittadino che incontra il bullo di turno magari armato, anche loro devono chinare la testa, cercare di adattarsi e cercare se esistano altri modi per tutelare i propri interessi.
È evidente che suona inimmaginabile pensare che Manila abbia la possibilità di confrontarsi con le armi contro la Cina. Ha provato a reagire annunciando certi propri progetti per costruzioni militari per le isole Spratly, ma i cinesi hanno mandato nella zona novanta navigli tra pescherecci e guardiacoste quale avvertimento. Di conseguenza i progetti dei filippini sono rimasti sulla carta.
Il presidente Duterte e il ministro della Difesa filippino Delfin Lorenzana hanno chiesto agli Stati Uniti di rivedere insieme i contenuti del Trattato ma è evidente che si tratta di una richiesta di principio che, anche qualora fosse accolta, non cambierà le cose. A Manila non resta che cercare di far sì che la Cina non sia troppo nemica e, per cercare di ingraziarsela, ha concordato azioni di pesca libera per entrambi nelle acque che una volta erano solo sue. Un’altra azione, più importante, è stato il consentire che il sistema wireless in tutte le Filippine sia realizzato e controllato da China Telecom.
Quali siano le conseguenze ai fini della sicurezza di un Paese il consentire a un altro Stato di gestire le proprie comunicazioni interne è domanda a cui è facile dare risposta.

Portaerei cinese Shandong. (Foto Li Gang/Xinhua).

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.