Fratello di un altro blocco: perché il Donbass è il canto del cigno della relazione perduta tra l’occidente e la Russia di Putin

di Francesco Saverio Angiò * – 

Durante gli anni ’90 il Patto Atlantico è riuscito a cooptare la Russia, avvicinando il Cremlino alle sue iniziative. Ciò significava condividere la sua visione strategica e fare di Mosca un socio nella lotta contro le nuove sfide alla sicurezza globale. Tuttavia negli anni 2000 l’Unione Europea è stata probabilmente troppo ingenua nel non considerare la reazione di Mosca allo sforzo di Bruxelles per integrare nella sua narrativa politica ed economica liberale quei paesi su cui la Russia tradizionalmente gettava la sua ombra.
Intervenendo militarmente in Ucraina con un rinnovato spirito imperialista per difendere il suo spazio post-sovietico di influenza e sicurezza, la Russia ha indubbiamente rotto un equilibrio. Se l’Europa decide di non agire, l’eventuale mancanza di assertività e coordinamento continentali potrebbe portare a un problema di sicurezza laddove una situazione simile a quella di una nuova Guerra Fredda non è del tutto inimmaginabile.
Tra marzo e aprile del 2021 Mosca ha ammassato circa 40mila militari a Voronezh, sul confine orientale dell’Ucraina, altri 40mila in Crimea, oltre a carri armati, missili a corto raggio e svariati sistemi d’arma a Rostov sul Don. Dopo settimane di escalation e appelli internazionali per invertire quel che sembravo l’inizio di un’offensiva, la Russia ha ritirato la maggior parte de suoi effettivi affermando che quella che definiva come un’esercitazione era stata portata a termine con successo.

Il Cremlino indirizza la sua politica estera verso lo spazio di sicurezza più vicino alla Russia, quello post-sovietico. Il dispiegamento di un intero arsenale di ragioni irredentiste nel conflitto nell’Ucraina orientale dimostra la volontà interventista di Mosca. Formalmente la Russia aveva minacciato di intervenire in base al sentore di un tentativo in atto di pulizia etnica contro i cittadini russi nella regione (dal 2019, Mosca ha rilasciato più di 650mila passaporti russi ai residenti del Donbass che ne hanno fatto richiesta). Il Donbass de facto non è sotto il controllo sovrano di Kiev. È da sette anni che il governo ucraino combatte con i separatisti della regione, sostenuta dalla Russia di Putin, una guerra a bassa intensità che ha già causato 14mila vittime lunga la linea di contatto nell’Ucraina orientale.

Forse dietro le recenti iniziative di Mosca nel Donbass si nasconde il tentativo di fare pressione su Kiev affinché riprenda i negoziati dopo le innumerevoli violazioni (da entrambe le parti) del cessate il fuoco accordato a Minsk. Più verosimilmente la Russia vuole distogliere l’attenzione dalle azioni dei dissidenti interni (per esempio, Navalny), concentrate soprattutto sul mancato rispetto dei diritti umani all’interno della Federazione, la piaga del clientelismo e della corruzione. Le critiche diffuse da parte della comunità internazionale più liberale nei confronti della politica estera russa, ritenuta aggressiva, o verso la mancanza di democrazia interna, assieme agli indicatori economici poco incoraggianti, hanno causato un notevole calo nel sostegno della società civile al governo russo (in base a Levada Center, solo Il 32% degli intervistati sosterrebbe il presidente), accusato anche di non aver saputo gestire la pandemia del COVID Sars-2, nonostante la propaganda che circonda il successo della creazione del vaccino Sputnik. Inoltre, i recenti colloqui tra Kiev e la NATO (invero iniziati già nel 2008) per una possibile adesione dell’Ucraina al Patto potrebbero essere all’origine degli “avvertimenti” muscolari della Federazione verso l’ex repubblica sovietica.

Nell’ultimo decennio Mosca ha agito apertamente come aveva raramente fatto durante i quasi 50 anni di Guerra Fredda, quando entrambi i blocchi temevano di rompere l’equilibrio di provocazioni a bassa intensità sul quale si reggeva la pace nucleare. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, una dittatura comunista durata 70 anni, molti analisti e osservatori credettero possibile per i russi la realizzazione di una transizione democratica genuina.
L’Alleanza Atlantica stava anche lavorando con Mosca per cementare nuove relazioni basate sul dialogo e cooptare l’orso russo agli ideali di un’inedita cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa. Durante le fasi più acute della cosiddetta guerra globale al terrorismo (Global War on Terrorism, GWOT) di Bush Jr., la NATO ha cercato di far condividere alla Russia la stessa visione di sicurezza internazionale degli alleati atlantici, da non considerarsi più come opponenti, per concentrare gli sforzi di entrambi su una serie di minacce comuni: il fondamentalismo religioso, l’estremismo insurrezionale, il traffico internazionale di stupefacenti, l’ascesa di attori violenti para o substatali la cui azione provoca conflitti sì a bassa intensità, ma permanenti.
Sono stati realizzati diversi passaggi formali per stabilire questa nuova relazione: nel 1991 la Russia è entrata a far parte del North Atlantic Cooperation Council e poi, nel 1994, del Programma Partnership for Peace; nel 1997 è stata la volta del Euro-Atlantic Partnership Council. Alla fine degli anni ’90, NATO e Russia hanno collaborato nei Balcani per stabilizzare il processo di pace in quella regione. Nel 2002 la cooperazione è stata rafforzata dalla creazione del NATO-Russia Council (NRC).
Tuttavia, l’elezione di Putin come presidente nel 1999 ha inaugurato una nuova fase della vita politica e sociale russa, definita putinismo, una fase che dura da più di 20 anni durante la quale il presidente ha posizionato suoi satrapi e uomini chiave in tutti gli apparati statali e governativi e in tutte le realtà imprenditoriali strategiche della Federazione.

Il sottile strato di democrazia che sembrava poter ammantare la Russia dopo il 1991 è caduto inesorabilmente. Dopo il vittorioso referendum costituzionale del 2020, Vladimir Putin, che è stato presidente dal 1999 al 2008, e ancora (dopo una parentesi come primo ministro), dal 2012 ad oggi, può candidarsi di nuovo per altri due mandati presidenziali di sei anni (nel 2024 e nel 2030). Qualora vincesse le elezioni, questo novello zar rimarrebbe al potere fino al 2036 ponendo il suo sigillo su 40 anni di storia russa e lasciando un segno indelebile sulla sua società.
La Russia di Putin rimane un colosso geopolitico da temere e un formidabile avversario strategico per il cosiddetto Occidente. Nel 2008, l’altrimenti pacifico sviluppo delle relazioni Est-Ovest ha subito un arresto dopo l’intervento di Mosca a sostegno dell’indipendenza delle regioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud dalla Georgia. Ma è stato dopo l’annessione unilaterale della Crimea nel 2014, a seguito delle azioni delle forze secessioniste in Ucraina, quando il rapporto NATO-Russia ha subito un duro colpo dal quale non si sarebbe ripreso.
Il 18 marzo del 2014 la penisola di Crimea (territorio ucraino fino a quel momento) e la città speciale di Sebastopoli sono stati ufficialmente annessi alla Federazione Russa. La comunità internazionale (leggasi l’Occidente) ha criticato e condannato il sostegno economico e militare che Mosca avrebbe fornito, prima discretamente, poi apertamente, ai ribelli. Putin ha recentemente celebrato l’anniversario di quell’evento, nel tentativo di rinverdire lo spirito nazionalista del popolo russo e costruire consenso.

In quel frangente l’Ue (con grossi interessi da parte polacca, supportata dagli Stati Uniti) ha probabilmente sbagliato a forzare la mano e ad estendere eccessivamente la sua spinta integrativa ad est, in una dimensione spaziale tradizionalmente legata agli interessi di sicurezza della Russia. Per usare termini geopolitici classici, tanto la Russia zarista come l’Unione Sovietica e, poi, la Federazione Russa sono stati da sempre ossessionati dalla necessità di circondarsi e proteggersi con una striscia di territori e stati satellite che fungessero da cuscinetto contro le minacce all’integrità territoriale che potevano provenire dalle rotte di invasione lungo le pianure centrali dell’Europa continentale (Napoleone prima e poi Hitler hanno rafforzato questi timori e la susseguente visione strategica della difesa russa).
Neanche la comunità di lingua russa nella parte orientale del paese ha visto come vantaggioso un avvicinamento tra Kiev e l’Unione Europea, e le trattative per un accordo di associazione paventavano uno snaturamento di quella che sembrava essere la tradizione russofila del paese (o almeno la percezione di una parte di esso).
Forse l’Unione Europea, nel proporre accordi commerciali con Kiev come un trampolino di lancio per futuri negoziati di integrazione politica, contava su di una presunta debolezza di Mosca, o semplicemente (ingenuamente?) su un cambio di interessi o di visione strategica della Russia, che avrebbe accettato, una volta per tutte, la perdita della sua zona cuscinetto post-sovietica, così come era avvenuto anche con la “perdita” dell’Europa dell’Est. Negoziati intelligenti avrebbero dovuto, invece, tenere conto dei reali interessi del Cremlino in Ucraina e nell’Europa orientale, lavorare per cooptare i leader russi e offrire compensazioni per una eventuale perdita di potere o influenza.
La mancanza di dialogo, o la sua interruzione, insieme a iniziative affrettate o percepite come tali, hanno probabilmente portato alla situazione attuale. Nell’Ucraina orientale, dove Kiev non esercita un controllo sovrano effettivo, è in corso una guerra civile con un fronte congelato. E la violenza, che affligge la regione, è ritornata brevemente sulle prime pagine dei giornali e sugli schermi delle breaking news, prima di ripiombare nel dimenticatoio della comunità internazionale e cristallizzare ancora una volta i fronti.

Ci sono voluti 20 anni affinché la NATO potesse costruire un rapporto di collaborazione con Mosca e cooptare i russi in una nuova visione della sicurezza e in una narrazione strategica che vedeva la Russia e gli alleati del Patto Atlantico combattere le sfide e le minacce del XXI secolo (soprattutto quelle rappresentate da attori sub-statali estremisti). Tuttavia, in Ucraina, il Cremlino ha reagito in modo muscoloso, usando tutto il suo hard power con l’annessione di Crimea e Sebastopoli.
Da allora, sia la NATO che l’UE hanno denunciato azioni destabilizzanti e provocatorie da parte della Russia in termini di interferenza nei processi elettorali, spionaggio (e conseguente reciproca espulsione di staff diplomatico), tentativi di eliminazione fisica di individui critici nei confronti di Mosca sul territorio degli stati europei membri, violazione dei trattati di non proliferazione nucleare, sostegno al regime di al-Assad in Siria e manovre militari nel Mediterraneo orientale (e in generale, aumento dell’attivismo nel Mediterraneo, soprattutto in Libia), vendita di materiale militare incompatibile con i sistemi d’arma della NATO alla Turchia (un membro dell’Alleanza) e al Venezuela di Maduro. Nel Baltico, i raid di jet militari, così come la guerra informatica e le manovre militari che porta avanti da anni al confine delle tre repubbliche ex sovietiche della regione, hanno chiarito che la Russia non ha mai metabolizzato completamente l’inclusione di Estonia, Lettonia e Lituania ne’ nell’Ue ne’ nella NATO, e non perde mai l’opportunità per mettere pressioni sull’Alleanza e testare la reattività del blocco occidentale e l’impegno NATO per la difesa degli alleati.
Si ripetono con una certa regolarità “incontri” tra bombardieri russi e intercettori NATO ai margini degli spazi aerei nazionali dei paesi membri nell’Atlantico del Nord, come accadeva tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quando l’URSS metteva alla prova le capacità difensive dei suoi avversari. Nello scacchiere navale, la flotta sottomarina russa incrocia nel Mediterraneo e nell’Atlantico, e dimostra la sua volontà di monopolio sul controllo delle future rotte artiche.
Allo stesso tempo, dal punto di vista russo, appare indubbio che Mosca abbia percepito le iniziative occidentali come manovre di espansione sia della NATO che dell’UE ad est, e iniziative come la proposta statunitense dello scudo antimissile in Europa orientale (formalmente, in chiave anti-iraniana) sono state viste come prova del processo di erosione del suo spazio di influenza e sicurezza. Le critiche occidentali alla corruzione e al mancato rispetto dei diritti umani e dei diritti della comunità LGTB+ in Russia contribuiscono ad esacerbare la dialettica e ad aumentare le distanze e i disaccordi.

Sotto la bandiera dell’isolazionismo del MAGA (Make America Great Again) l’elezione di Donald Trump come presidente ha aperto per gli USA una fase di passività verso la Russia, così come ha dato il via a un discorso di possibile abbandono progressivo del Vecchio Continente come scenario di sicurezza prioritario da parte degli Alleati nordamericani, i cui interessi avevano già iniziato a fare perno sull’Asia-Pacifico con l’amministrazione Obama. Proprio per l’amministrazione Obama, un grande fallimento in politica estera è stata l’apertura delle ostilità con il gigante russo e la mancanza di una possibile reazione contundente all’annessione della Crimea.
La Casa Bianca, a fine 2016, a fine mandato di Obama, aveva dichiarato che Washington si riservava il diritto di ritorsioni a causa della presunta ingerenza di Mosca, o di attori legati al Cremlino– nel processo elettorale statunitense. Tuttavia, il presidente eletto Trump veniva percepito come un attore più vicino agli interessi del gigante eurasiatico rispetto al suo predecessore. Ma nonostante i tentativi del presidente Trump di screditare i servizi d’intelligence del suo stesso paese, la CIA riconfermava i suoi sospetti sul Cremlino come il principale responsabile dei tentativi di ingerenza elettorale.
L’Agenzia riteneva che gli agenti russi avessero generato una sorta di influenza sul voto delle elezioni presidenziali nel paese nordamericano, pianificata ed eseguita dall’estero, come se si trattasse di un romanzo di Tom Clancy. L’obiettivo delle manovre russe, che sarebbero state attuate attraverso attacchi informatici e una campagna di comunicazione volta alla manipolazione dell’elettorato, sarebbe stato quello di provocare la sconfitta della candidata democratica alla presidenza, Hillary Clinton.

Un certo realismo strategico ha anche portato Washington a spostare l’attenzione dal Vicino/Medio Oriente verso il Pacifico, circostanza che ha aperto finestre geopolitiche piene di opportunità per la Russia, attiva sia ai limiti dell’ex impero sovietico, dove non rinuncia al suo cuscinetto difensivo e al suo spazio di influenza economica e culturale, sia nel Mediterraneo e nel Vicino/Medio Oriente.
Sembra che il nuovo presidente Joseph Biden possa essere più assertivo rispetto a Trump nel trattare con il Cremlino di Putin e fare maggior affidamento sull’impegno degli alleati europei. Tuttavia, il Vecchio Continente dovrà dimostrare proattività strategica, ancora non materializzatasi. La vertente europea atlantica non occupa ancora lo spazio che Washington abbandonerebbe se Biden rinegoziasse l’impegno statunitense nella difesa e sicurezza degli alleati del Patto.
Un’Europa che difende i suoi interessi attraverso una forte presenza nella sua area strategica di influenza dovrà prendere rischi e assumere responsabilità. In poche parole, esercitare una leadership che, probabilmente, ancora non può o vuole dimostrare verso la Russia di Putin.
L’eventuale mancanza di coordinamento continentale tra i partner europei rappresenta un problema di sicurezza. Se l’Europa decide di non fare nulla, non è del tutto inimmaginabile una situazione simile a quella di una nuova Guerra Fredda, dove però la potenza nordamericana semplicemente si ritirerebbe o sposterebbe la sua attenzione su un’altra regione geopolitica (l’Indo-Pacifico), e la Russia tornerebbe al suo stato naturale di potenza egemonica in Eurasia.

* Francesco Saverio Angiò ha conseguito il Dottorato di ricerca in Sicurezza Internazionale presso UNED (Spagna), difendendo una tesi sulla territorialità jihadista, ottenendo la lode e il “premio extraordinario” ministeriale. Nel 2017 ha condotto un periodo di ricerca presso il Dipartimento di Storia del King’s College di Londra. Attualmente è docente del modulo sulla Turchia nella politica mediorientale presso l’Università degli Studi “Niccolò Cusano” (Italia). Ha diverse pubblicazioni su riviste specializzate e contributi in pagine web open-source incentrate sulla sicurezza internazionale e sulla geopolitica.