Gaza. Continuano i colloqui in Egitto: Hamas e Netanyahu in cerca di sopravvivenza

di Shorsh Surme

Dopo due anni di guerra, entrambe le parti, cioè Hamas e Israele, hanno una reale opportunità di raggiungere un accordo che ponga fine alle uccisioni e alle distruzioni a Gaza e restituisca i prigionieri israeliani, vivi e morti, alle loro famiglie. Ma questa è una prospettiva incerta, e sia Hamas che Israele devono coglierla al volo affinché si concretizzi.
L’attacco del 7 ottobre ha lasciato una profonda ferita nell’opinione pubblica israeliana. Quel giorno circa 1.200 persone sono state uccise, la maggior parte delle quali civili israeliani, e 251 sono state rapite. Stime israeliane indicano che circa 20 dei rapiti sono ancora vivi e Israele chiede la restituzione dei corpi di altri 28. La massiccia risposta militare israeliana ha devastato tutta Gaza e, secondo il Ministero della Salute l’esercito israeliano ha ucciso 77mila persone di cui più di 20mila bambini. Studi indipendenti, tra cui un articolo apparso su The Lancet, suggeriscono che queste cifre potrebbero essere sottostimate.
Sia le strade israeliane che quelle palestinesi anelano alla fine della guerra. Gli israeliani sono stremati dai combattimenti e i sondaggi d’opinione mostrano che la maggioranza auspica un accordo che riporti i prigionieri e ponga fine ai combattimenti. Centinaia di migliaia di riservisti delle IDF vogliono riprendere le loro vite dopo lunghi mesi di servizio, e anche tra loro vi è un alto numero di vittime. Dal lato palestinese oltre due milioni di persone a Gaza stanno vivendo una catastrofe umanitaria, intrappolate tra la potenza di fuoco dell’esercito e la fame dovuta agli aiuti bloccati dagli israeliani.
La versione di Hamas è praticamente crollata come un’unica struttura militare; si è trasformata in una forza di guerriglia urbana che conduce un’insurrezione tra le rovine della Striscia. Hamas sta cercando un modo per sopravvivere e, secondo quanto riferito, ha accettato di consegnare o smantellare le armi pesanti. Allo stesso tempo insiste nel mantenere una forza sufficiente a scoraggiare i palestinesi che potrebbero cercare vendetta per decenni di governo, sfociati in una catastrofe dopo i suoi attacchi.
Siccome alla base di tutto vi è la progressiva espansione di Israele ai danni dei palestinesi, tanto che in agosto la Knesset ha votato l’annessione della Cisgiordania, gli Emirati Arabi Uniti hanno avvertito Israele che annettere la Cisgiordania significherebbe oltrepassare una “linea rossa”.
Non lo dicono pubblicamente, ma un’organizzazione che ha ancora sostenitori e uno statuto che invoca la distruzione di Israele cercherà anche di uscire dai negoziati con qualcosa che le permetterà di ricostruire le sue capacità in seguito, in linea con il suo acronimo: Movimento di Resistenza Islamico.
Israele vuole imporre condizioni per la resa di Hamas. Ma il fatto che Hamas abbia una seria opportunità negoziale apre prospettive che non sembravano possibili un mese fa, quando Israele ha tentato, senza successo, di colpire la leadership di Hamas con un attacco a un edificio a Doha dove si stavano discutendo le proposte di pace presentate da Donald Trump. Il leader di spicco Khalil al-Hayya è sopravvissuto e ha continuato a guidare la delegazione di Hamas nei negoziati di Sharm el-Sheikh, nonostante suo figlio sia rimasto ucciso nell’attacco.
Benjamin Netanyahu cerca un diverso tipo di sopravvivenza: mantenere il potere, rinviare il processo per corruzione, aumentare le sue possibilità alle prossime elezioni ed evitare di essere considerato un leader responsabile di fallimenti in materia di sicurezza, culminati nel giorno più sanguinoso di sterminio di ebrei dai tempi dell’Olocausto. Per raggiungere questo obiettivo ha bisogno di una narrazione in cui poter dichiarare “vittoria completa”, una frase che ha ripetuto spesso, definita dal ritorno dei prigionieri, dalla distruzione di Hamas e dalla smilitarizzazione di Gaza. Se non riesce a realizzare questi assiomi, non sarà sufficiente sottolineare i danni inflitti da Israele ai suoi nemici in Libano e Iran negli ultimi due anni.