Gaza. Israele elimina il leader del Movimento dei Mujahideen Sharia

di Giuseppe Gagliano

L’annuncio dell’eliminazione di Asaad Abu Sharia, leader del Movimento dei Mujahideen palestinesi e del suo braccio armato (le Brigate Mujahideen) rappresenta, nelle parole delle autorità israeliane, un colpo chirurgico inferto al cuore di una delle formazioni che parteciparono all’attacco del 7 ottobre. A fianco di Hamas e altri gruppi armati, i miliziani di Abu Sharia si unirono all’assalto al kibbutz Nir Oz, uno dei luoghi diventati simbolo della tragedia israeliana di quella giornata. Ma come spesso accade in questa guerra che non finisce, la fine di un comandante non significa la fine del conflitto. E spesso nemmeno una reale vittoria.
Secondo le Forze di Difesa Israeliane, l’uomo è stato ucciso in un raid aereo congiunto con lo Shin Bet nel quartiere di Sabra, a Gaza, in un’operazione che avrebbe anche ucciso il fratello Ahmed. Le fonti israeliane aggiungono dettagli pensati per colpire l’opinione pubblica: Asaad Abu Sharia sarebbe stato uno dei rapitori di Shiri, Ariel e Kfir Bibas, una madre e due bambini diventati volti noti della tragedia, perché Kfir, all’epoca, era il più giovane ostaggio: solo nove mesi. La loro esecuzione avrebbe reso inevitabile, secondo Tel Aviv, l’eliminazione dei responsabili.
In questa rappresentazione l’operazione è narrata come una risposta morale, un atto di giustizia che si accompagna alle parole della famiglia Bibas: “Non potremo riabbracciarli, ma almeno sappiamo che questi assassini non faranno più del male ad altri”. Una frase che chiude il cerchio della vendetta, ma che non cancella l’orrore.
L’episodio si colloca in un momento in cui Israele tenta di rafforzare il consenso interno e internazionale sulla prosecuzione della campagna militare a Gaza. Dopo mesi di combattimenti, e con la crescente pressione diplomatica per una tregua, l’eliminazione mirata dei responsabili materiali degli eccidi del 7 ottobre diventa anche una strategia di comunicazione.
Ma non tutto è chiaro. I Mujahideen palestinesi, vicini ad Hamas ma dotati di una propria agenda jihadista, non avrebbero partecipato alla pianificazione dell’attacco, unendosi all’ultimo momento come “estensione” operativa. L’ambiguità tra corresponsabilità diretta e coinvolgimento tattico rimane, lasciando spazio a interpretazioni strumentali.
D’altro canto le immagini che giungono da Gaza parlano di un’operazione aerea che avrebbe causato la morte di almeno 15 persone, tra cui civili, secondo fonti locali. L’uso di raid ad alta intensità in aree residenziali continua a sollevare dubbi sul rispetto del diritto internazionale umanitario. Mentre si moltiplicano le prove sull’utilizzo da parte di Hamas di tunnel sotto ospedali e strutture civili, come quello individuato sotto l’Ospedale europeo di Khan Younis, la distinzione tra obiettivi militari e presenza civile si fa ogni giorno più sottile.
L’eliminazione di Sharia non è un atto isolato, ma un nuovo episodio della guerra d’attrito. Israele ha dichiarato che il gruppo Mujahideen trattiene ancora il corpo di un cittadino straniero e che Sharia sarebbe stato coinvolto anche nel sequestro della coppia israelo-americana Haggai e nell’uccisione del lavoratore agricolo thailandese Nattapong Pinta. Ogni nome è una ferita, ogni vittima una linea nel dossier di un conflitto che si alimenta del dolore.
La guerra che si combatte a Gaza, e nei media, è anche guerra dei simboli. La morte di un leader militante serve a costruire l’idea che si possa “chiudere il cerchio”, ma in un conflitto così radicato, nessuna morte porta realmente la pace. Le fazioni armate si riorganizzano, gli atti di rappresaglia si moltiplicano, e la spirale non accenna a rallentare.
Israele lancia un messaggio: i responsabili non avranno scampo. Ma resta aperta la domanda più profonda: dopo Sharia, quanti altri nomi seguiranno? E soprattutto, chi scriverà l’ultimo capitolo di questa lunga guerra senza fine?