di Giuseppe Gagliano –
Accogliendo il segretario di Stato Usa Marco Rubio ad Abu Dhabi, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed al-Nahyan, non ha usato mezze parole e ha chiuso la porta al piano di Donald Trump su Gaza: niente sfollamento dei palestinesi, niente esodo forzato verso Giordania ed Egitto. Per gli Emirati Arabi Uniti, la ricostruzione della Striscia passa solo attraverso la soluzione dei due Stati, un mantra che il leader emiratino ha ripetuto con la fermezza di chi sa di parlare per molti. Ma dietro il rifiuto c’è più di una presa di posizione morale: c’è una regione che non vuole piegarsi a una pax americana imposta con il bisturi, e un gioco di equilibri che Trump sembra sottovalutare.
La proposta del presidente americano, lanciata il 4 febbraio, è brutale nella sua semplicità: Gaza sotto controllo statunitense, 2,4 milioni di palestinesi trasferiti altrove, Hamas cancellato dalla mappa. Un’operazione chirurgica che dovrebbe, nelle intenzioni di Trump, stabilizzare la regione e liberare Israele da un peso decennale. Ma i Paesi arabi, dagli Emirati all’Egitto, dalla Giordania all’Arabia Saudita, vedono altro: un’espulsione di massa che rischierebbe di destabilizzare i loro fragili equilibri interni, già provati da anni di conflitti e flussi migratori. Abu Dhabi lo ha detto chiaro a Rubio: senza due Stati, non c’è pace. E senza pace, la ricostruzione di Gaza – devastata da decenni di guerre – resta un miraggio.
Trump però non molla. Ha chiesto ai leader arabi di proporre alternative, ma il suo approccio tradisce una visione unilaterale: gli Stati Uniti decidono, gli altri eseguono. Rubio, fresco di colloqui a Riyad con Lavrov e di un passaggio a Gerusalemme dove ha dato carta bianca a Netanyahu, porta avanti la linea dura. Eppure, il Medio Oriente non è l’Ucraina: qui, la resistenza non è solo militare, ma politica e culturale. Il vertice del 22 febbraio a Riyad, con il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Egitto e Giordania, nasce proprio da questa impasse: trovare una controproposta che salvi la faccia a tutti, ma soprattutto i palestinesi.
Mohamed bin Zayed al-Nahyan non è un idealista. Gli Emirati, con i loro grattacieli e il petrolio, sono un alleato chiave degli Stati Uniti: basi militari, accordi economici, una partnership che Rubio ha voluto rinsaldare. Ma Abu Dhabi ha anche una sua bussola: stabilità regionale, influenza tra i Paesi arabi, un ruolo di mediatore che non vuole sacrificare sull’altare di Trump. Rifiutare lo sfollamento è una scelta pragmatica: accogliere milioni di palestinesi significherebbe importare tensioni sociali e dare ossigeno ai movimenti islamisti, un incubo per un Paese che ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele nel 2020 proprio per blindare la propria sicurezza.
C’è poi il messaggio a Netanyahu. Rubio a Gerusalemme ha promesso “sostegno incondizionato”, ma gli Emirati, pur legati a Israele da interessi economici, non accettano che Gaza diventi un problema altrui. La pace per Abu Dhabi, non è solo assenza di guerra, ma un equilibrio che includa i palestinesi, non li espella. Un monito che guarda anche a Riyad, dove il principe Mohammed bin Salman ha ascoltato Rubio il 18 febbraio con un orecchio solo: l’Arabia Saudita vuole normalizzare i rapporti con Israele, ma non a costo di tradire la causa palestinese.
Cosa ci insegna questo scontro? Trump vuole imporre una soluzione rapida, ma il Medio Oriente non è un puzzle che si risolve con un tratto di penna. Gli Emirati, con il loro no, rappresentano una regione che non accetta di essere scavalcata: non è solo una questione di principio, ma di sopravvivenza politica. Rubio, giramondo instancabile, si trova tra due fuochi: da un lato la Casa Bianca e Israele, dall’altro alleati arabi che chiedono rispetto. E Gaza? Resta il grande escluso, un territorio che tutti vogliono ricostruire ma nessuno osa difendere davvero.
Il vertice del 22 febbraio sarà un banco di prova. Se i Paesi arabi troveranno una voce comune, Trump dovrà rivedere i suoi piani. Altrimenti, il rischio è un’escalation: non solo a Gaza, ma in tutto il Levante, dove la rabbia popolare potrebbe travolgere i governi più moderati. La realpolitik americana si scontra con una resistenza che non è solo diplomatica, ma radicata nella storia. E per una volta, il “deal” di Trump potrebbe restare sulla carta.