
di Giuseppe Gagliano –
La sera del 12 ottobre segna un passaggio simbolico nella lunga e sanguinosa guerra tra Israele e Hamas. Con un discorso televisivo dal tono solenne e ricco ri richiami confessionali, il premier Benjamin Netanyahu ha dichiarato la “vittoria” contro Hamas, alla vigilia della liberazione degli ostaggi israeliani e dello scambio con circa 2mila prigionieri palestinesi. Ma dietro le parole trionfalistiche si intravede un delicato equilibrio politico e strategico: quello di un cessate-il-fuoco negoziato sotto la regia diretta di Donald Trump, che ha trasformato Gaza in un laboratorio per il nuovo assetto regionale.
Secondo il piano annunciato, gli ostaggi sopravvissuti, venti persone, vengono consegnati alla Croce Rossa Internazionale oggi, scortati su più veicoli per garantire sicurezza e visibilità internazionale. In cambio Israele procederà alla liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi, inclusi sette leader di primo piano richiesti da Hamas. L’operazione, frutto di trattative serrate, ha richiesto mediazioni multilaterali e il coinvolgimento del governo dell’Egitto, determinante per garantire l’attuazione della tabella di marcia.
Netanyahu ha incorniciato la giornata come “una serata di lacrime e gioia”, rivendicando risultati militari che avrebbero “stupito il mondo”. Al suo fianco, il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha rivendicato la pressione militare esercitata in due anni come elemento decisivo per piegare Hamas. È un messaggio chiaro: la forza militare, sostenuta da un impianto diplomatico, è stata trasformata in leva negoziale.
Mentre gli ostaggi affrontano le operazioni di rientro, anche Hamas manda segnali al mondo. Fonti vicine al comitato negoziale del movimento hanno confermato che non parteciperà alla governance della Striscia nel dopoguerra. È un passo strategico: rinunciare al potere amministrativo per preservare l’identità politico-militare e restare una componente influente del tessuto palestinese. Hamas accetta una tregua a lungo termine, ma rifiuta di disarmarsi: “Il disarmo è fuori questione”, ha affermato un funzionario del gruppo, sottolineando che le armi saranno usate solo in caso di nuovi attacchi israeliani.
In altre parole Hamas non governerà più Gaza, ma nemmeno scomparirà. Questo apre uno scenario instabile: la fine formale del controllo politico non equivale alla neutralizzazione della capacità militare.
La cornice politica di questa transizione è rappresentata dal piano in 20 punti del presidente Trump, che immagina Gaza come “zona deradicalizzata e libera dal terrorismo”. Secondo il progetto, Hamas non avrà alcun ruolo nella governance futura e la sua infrastruttura militare dovrà essere distrutta. A gestire la transizione sarà un comitato tecnico palestinese, apolitico e temporaneo, i cui membri saranno scelti attraverso mediazione regionale. L’Egitto, ancora una volta, gioca un ruolo cruciale nella definizione dei nomi e delle garanzie operative.
La visita di Trump in Israele subito dopo la liberazione degli ostaggi e il successivo incontro in Egitto con leader regionali rappresentano un’operazione di forte visibilità politica e strategica, che mira a capitalizzare un successo diplomatico in un momento di transizione geopolitica in Medio Oriente.
Il ritiro politico di Hamas dalla governance e la supervisione diretta degli Stati Uniti e dell’Egitto segnano un cambio strutturale negli equilibri di potere a Gaza. Israele ottiene un risultato strategico: ridimensionare Hamas senza dover occupare direttamente la Striscia. Gli Stati Uniti si ritagliano un ruolo centrale di mediazione, rafforzando la loro presenza politica nella regione dopo anni di incertezza. L’Egitto consolida la sua posizione di attore cardine nella sicurezza regionale.
Tuttavia questo equilibrio resta fragile. Il rifiuto di Hamas di disarmarsi e il rischio che nuove tensioni locali possano riaccendere il conflitto mostrano che la vittoria proclamata da Israele è soprattutto simbolica. La vera partita sarà gestire il dopoguerra e la transizione politica di Gaza.
Il piano Trump può essere considerato una tregua condizionata, non una pace definitiva. Non affronta il nodo centrale della questione palestinese: la sovranità politica. Hamas, pur ridimensionato, continuerà a rappresentare una parte della società palestinese e la sua marginalizzazione potrebbe alimentare nuove tensioni sotterranee. Allo stesso tempo, Israele si trova a dover mantenere un equilibrio complesso tra sicurezza, politica interna e pressione internazionale.
Questa vittoria annunciata somiglia più a una tregua armata che a una soluzione definitiva. Il futuro di Gaza resta appeso a un fragile compromesso, in cui diplomazia, forze armate e calcolo politico si intrecciano in un equilibrio precario.











