di Giuseppe Gagliano –
Se in qualche modo l’interesse dei media tende a mettere in secondo piano la mattanza di Gaza, vuoi per gli Europei di calcio, la pressione dell’esercito israeliano continua a provocare morti fra i palestinesi della Striscia, ormai quasi 38mila.
Non passa giorno senza che il ministero della Salute di Gaza e i media internazionali denuncino vittime tra i civili, e anche nelle ultime ore una decina tra uomini, donne e bambini sono rimasti vittime di un bombardamento a Waha, nel centro della regione. Nelle ore precedenti in un attacco israeliano nelle zone di al-Shahti e al-Tuffah sono rimaste uccise 42 persone, tra cui 16 bambini, mentre una serie di raid hanno martellato duramente l’area umanitaria di Mawasi sulla costa di Rafah, dove 25 persone hanno perso la vita. La giustificazione fornita dall’esercito israeliano è stata una risposta ai razzi lanciati dai gruppi militanti palestinesi, tra cui Hamas e la Jihad islamica, che continuano a minacciare il territorio israeliano.
L’intensificazione delle operazioni militari israeliane ha avuto ripercussioni significative con l’uccisione di figure chiave un importante agente di Hamas, tuttavia l’impatto sui civili palestinesi è stato devastante, con numerosi edifici distrutti e centinaia di persone rimaste senza casa. La comunità internazionale, rappresentata dall’Unione Europea, ha richiesto un’indagine indipendente sugli eventi sollevando dubbi sulla proporzionalità e sulla legalità delle azioni israeliane.
Appelli come quello dell’Unione Europea si susseguono ormai da mesi, persino dagli alleati Usa, ma nel doppiopesismo che lava la coscienza degli occidentali continuano a essere insignificanti per il governo di Benjamin Netanyahu. Questi, oltre a dover far fronte alla crescente opposizione interna, con corpose manifestazioni che si ripetono da mesi nelle quali viene chiesta la soluzione politica del conflitto, deve difendersi anche sul fronte internazionale, dove diversi paesi lo vorrebbero sotto processo presso la Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Ma soprattutto la risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre, arrivato a seguito del conflitto israelo-palestinese che vede oggi 750mila israeliani insediati nei Territori palestinesi e la regione di Gaza trasformata in un immenso Lager, sta incontrando una crescente opposizione nell’opinione pubblica internazionale fino a un giustificabile antisionismo e a un non giustificabile antisemitismo.
Negli ultimi giorni un episodio particolarmente sconvolgente è stato documentato in Cisgiordania, dove un palestinese è stato legato al cofano di una jeep militare israeliana durante un’operazione di polizia a Jenin. Questo atto, catturato in un video diffuso dai media arabi, ha suscitato l’indignazione diffusa e ha portato l’IDF a riconoscere la violazione dei protocolli militari, promettendo un’indagine approfondita, ovvero la solita fuffa.
Certo è che la risposta dei media e delle cancellerie occidentali sarebbe stata ben diversa se invece di Netanyahu si stesse parlando di Vladimir Putin, e se invece che palestinese il teatro di guerra fosse ucraino.
La situazione si è ulteriormente complicata con la decisione del governo israeliano di trasferire la giurisdizione degli insediamenti dall’amministrazione civile all’IDF, una mossa firmata dal ministro Smotrich. Questa decisione è vista come un ulteriore passo verso l’annessione de facto delle terre palestinesi, alimentando le tensioni e le critiche internazionali. La costruzione di nuove unità abitative nei territori occupati continua, nonostante le proteste della comunità internazionale e le richieste di cessazione delle attività di insediamento stabilite dalle risoluzioni Onu, che a quanto pare valgono per la Russia ma non per Israele.
In questo contesto di crescente violenza, Washington ha considerato l’ipotesi di sospendere parte degli aiuti a Israele, cercando di esercitare pressione per una riduzione delle ostilità. La comunità internazionale, inclusi gli Stati Uniti, continua a sollecitare Israele affinché faciliti il trasporto degli aiuti umanitari e apra i valichi di terra per permettere l’ingresso delle forniture essenziali a Gaza.
Il molo galleggiante costruito dall’esercito statunitense per facilitare le consegne umanitarie via mare a Gaza si è rivelato inefficace a causa delle condizioni meteorologiche avverse e della scarsa sicurezza. Il progetto, che ha comportato un investimento di 230 milioni di dollari, è operativo dal 17 maggio, ma numerosi aiuti umanitari restano bloccati sulla spiaggia a causa della mancanza di sicurezza per i camion che dovrebbero distribuirli.
La situazione umanitaria a Gaza rimane critica, in quanto gli israeliani continuano la chiusura del valico di Rafah con l’Egitto e quindi impediscono l’afflusso di aiuti vitali. Gli operatori umanitari hanno riportato che le condizioni di sicurezza rendono quasi impossibile la distribuzione degli aiuti, con continui bombardamenti che mettono a rischio la vita degli addetti ai lavori e dei civili.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha riportato che 22 persone sono state uccise in un bombardamento a Gaza che ha colpito anche il suo ufficio, circondato da sfollati palestinesi in tende.