di Giuseppe Gagliano –
A Sharm el-Sheikh si è compiuto un passaggio diplomatico che va ben oltre Gaza. Egitto, Qatar e Turchia hanno firmato con Donald Trump un documento che segna la prima tappa formale di un cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas. Un vertice di alto profilo, con oltre venti leader internazionali, ha offerto al presidente americano il palcoscenico ideale per rilanciare la proiezione strategica degli Stati Uniti in Medio Oriente e consolidare il suo ruolo di “kingmaker” della tregua. Ma dietro l’immagine solenne di un accordo diplomatico si nasconde un’architettura di potere molto più complessa, dove la ricostruzione di Gaza è il terreno di scontro tra interessi strategici e calcoli geopolitici.
Il cessate-il-fuoco, entrato in vigore il 10 ottobre, ha permesso a migliaia di palestinesi di tornare verso le proprie case e ha aperto i varchi all’ingresso di aiuti umanitari bloccati per mesi. Ma la tregua non è stata il frutto di un negoziato diretto tra Hamas e Israele. Gli Stati Uniti, i Paesi arabi e la Turchia hanno imposto una cornice multilaterale in cui gli attori principali restano sullo sfondo, mentre i mediatori definiscono i parametri della fase successiva. È significativo che Benjamin Netanyahu abbia scelto di non partecipare al vertice, segno che Israele preferisce mantenere libertà d’azione rispetto a un quadro diplomatico ancora fragile.
Uno degli elementi centrali del piano riguarda la gestione politica di Gaza dopo la tregua. Hamas sarà escluso dal governo transitorio: la governance sarà affidata a un comitato di 15 tecnocrati palestinesi, approvati da Israele e supervisionati da un “Consiglio per la Pace” proposto da Trump. Sul piano della sicurezza si prevede l’arrivo di una forza multinazionale autorizzata dal Consiglio di Sicurezza Onu, con compiti di peacekeeping e stabilizzazione. Il piano lascia intendere che la vera sovranità sul territorio sarà nelle mani di chi controllerà le catene di sicurezza e di finanziamento, più che di un’istituzione politica autonoma.
Egitto, Qatar e Turchia non sono semplici firmatari: sono investiti del compito di gestire il processo. L’Egitto, storico mediatore, mira a rafforzare la propria centralità regionale; il Qatar garantisce la connessione con la leadership politica di Hamas e con le reti finanziarie; la Turchia punta a riaffermarsi come potenza regionale capace di mediare tra mondi arabi e islamici. Il loro coinvolgimento segna una ridistribuzione del potere regionale, con Washington che orchestra ma non impone, consapevole che senza attori locali la tregua non reggerebbe.
Il piano di Trump non è solo politico e militare: è anche economico. La ricostruzione di Gaza è stimata dalla World Bank e dalle autorità egiziane in 53 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra colossale che apre un vasto mercato per imprese, fondi sovrani e governi interessati a inserirsi nella ricostruzione di infrastrutture, energia, trasporti e servizi di base. L’Egitto ha già annunciato una conferenza dei donatori per novembre. La Gran Bretagna, per bocca di Keir Starmer, ha promesso 20 milioni di sterline per acqua e igiene pubblica. Altri contributi arriveranno probabilmente dai Paesi del Golfo e dall’Europa. In questo contesto, la “pace” diventa anche un gigantesco cantiere economico da cui dipenderà il futuro assetto politico e sociale di Gaza.
Se la prima fase, cioè la tregua e lo scambio di prigionieri, appare relativamente chiara, la seconda è piena di interrogativi: il disarmo di Hamas, il grado di ritiro israeliano, la costruzione di una forza di sicurezza palestinese addestrata da Egitto e Giordania. Ogni passaggio comporta tensioni, interessi contrapposti e possibilità concrete di collasso dell’intero processo. Israele, pur non opponendosi apertamente, mantiene margini di manovra per controllare la profondità e i tempi della transizione. Hamas, esclusa formalmente, resta un attore armato sul terreno. Gli Stati Uniti, pur centrali, non possono garantire una stabilità duratura senza una convergenza reale tra gli attori regionali.
La tregua di Sharm non è solo un cessate-il-fuoco: è il primo tassello di una nuova architettura di potere in Medio Oriente. Gli Stati Uniti cercano di riaffermare la loro centralità, i mediatori regionali vogliono aumentare la loro influenza e Israele punta a mantenere un controllo strategico senza impegnarsi formalmente in un processo di pace strutturato. La ricostruzione di Gaza, più che un’operazione umanitaria, sarà una partita geopolitica di prim’ordine, in cui chi finanzia e controlla determinerà gli equilibri futuri. In questo scenario, la pace resta fragile, contingente e subordinata agli interessi di chi la costruisce, non di chi la vive.












