Gb. Il prezzo del protezionismo: dazi, crisi e tempesta perfetta

di Giuseppe Gagliano –

La Brexit doveva restituire sovranità e rilanciare l’economia britannica su scala globale. Invece, nell’aprile 2025, il Regno Unito registra la peggiore caduta mensile delle esportazioni da oltre vent’anni, con un crollo di 2,7 miliardi di sterline. A pagarne il prezzo sono soprattutto settori strategici come automotive, acciaio e manifattura, già indeboliti dalla perdita di accesso diretto al mercato europeo e ora ulteriormente affondati dai nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti sotto la presidenza Trump.
Secondo i dati dell’ONS, le esportazioni verso gli USA sono calate dell’8,8%, segnando la più brusca frenata dal gennaio 1997. Un colpo che si riflette anche sulla sterlina, scesa ulteriormente rispetto al dollaro, alimentando il clima d’incertezza e minando la competitività delle imprese britanniche sui mercati internazionali.
A nulla è valso l’accordo commerciale siglato tra Londra e Washington lo scorso 8 maggio, che ha ridotto i dazi britannici sui prodotti statunitensi dal 5,1% all’1,8%. I dazi americani del 10% sulle merci britanniche restano invece intatti. Il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti non intendono fare concessioni unilaterali, e in un’epoca di “America First”, la “Global Britain” si scopre più isolata che mai.
Il premier Keir Starmer difende l’accordo, presentandolo come una misura salvavita per settori chiave. Ma la realtà parla di accordi asimmetrici, in cui Londra offre aperture senza ottenere reciprocità. Il Regno Unito, già sprovvisto del paracadute europeo, ora si ritrova colpito dal fuoco amico di Washington.
Il bilancio commerciale peggiora: 11,5 miliardi di sterline di disavanzo in soli tre mesi, a fronte di importazioni in crescita e vendite all’estero in caduta libera. Le ripercussioni sono sistemiche: la produzione industriale arretra, il settore immobiliare si contrae dopo la fine degli sgravi fiscali, e il PIL si riduce dello 0,3% in aprile.
E se la crescita nel primo trimestre (+0,7%) aveva illuso il governo, la Banca d’Inghilterra ha già rivisto al ribasso le previsioni per il 2026, ipotizzando un impatto diretto dei dazi sulla produzione industriale (-0,3%) e sull’export, con effetti potenzialmente duraturi sull’equilibrio macroeconomico.
Il governo Starmer annuncia piani ambiziosi: 29 miliardi di sterline all’anno per il sistema sanitario, 39 miliardi per l’edilizia sociale, e 30 miliardi per l’energia nucleare. Ma sono cifre che poggiano su un terreno instabile: l’aumento delle tasse previsto nel bilancio d’autunno 2024. La ministra del Tesoro Rachel Reeves assicura rigore fiscale, ma l’opposizione conservatrice parla di un’economia drogata da debito e finta spesa pubblica.
Il cancelliere ombra Mel Stride accusa il governo di “spendere oggi per tassare domani”, prefigurando un’estate difficile per le famiglie e le imprese britanniche. Intanto, gli investitori internazionali scrutano con diffidenza una nazione che promette rilancio ma incassa solo incertezza.
Questa nuova fase di fragilità commerciale e tensioni valutarie rappresenta un rischio strategico. Un Regno Unito indebolito economicamente e dipendente dai capitali stranieri perde peso anche come attore geopolitico. Eppure, la classe dirigente britannica, travolta dalla retorica bellicista e dalla pressione americana, continua ad alimentare la sua postura interventista sulla Russia, dimenticando che una guerra non si conduce con fabbriche vuote e casse esangui.
Alla prova dei fatti, il “ritorno della grandeur” britannica rischia di essere una recita a porte chiuse, dove l’illusione di potenza si scontra con la brutalità dei numeri. Se il commercio estero collassa e la valuta vacilla, anche le ambizioni globali cominciano a sembrare ridicole. E forse, prima di invocare la guerra altrove, Londra dovrebbe guardarsi allo specchio.