Georgia. Ue e Nato non mollano. Perché…

di Dario Rivolta * –

È difficile trovare notizie sui giornali europei e occidentali in merito alla caucasica Georgia. Eppure, nel silenzio della stampa occidentale, anche lì sia l’Europa sia gli Stati Uniti stanno mandando un mucchio di denaro con motivazioni ufficiali le più svariate. È un Paese di meno di quattro milioni di abitanti (comprendendo i cittadini abcazi e osseti, oggi indipendenti), con una superficie di soli 70mila km quadrati, con un’economia principalmente agricola e di piccole dimensioni e una quota crescente nel settore dei servizi (specialmente turismo). Il principale partner commerciale resta la Russia cui va quasi la totalità della produzione vinicola. Come si spiega tutto questo interesse da parte di Ue e Nato?
Il Paese ospita la montagna più alta del Caucaso, il monte Shkhara, che arriva ai 5.204 m. (più del Monte Bianco) e una notizia che non tutti conoscono è che nel suo territorio è stata ritrovata la prova più antica che certifica una locale produzione del vino iniziata millenni prima che in qualunque altra parte del mondo. È improbabile tuttavia dedurne che sia questa la ragione dell’attenzione che suscita nei nostri governanti. Che sia la sua storia? Di là del fatto che la si conosce abitata sin dagli albori della civiltà, c’è ben poco da dire. Dal 1800 e per circa 200 anni è stata parte prima dell’Impero Russo, poi dell’Unione Sovietica. Solo col dissolvimento di quest’ultima ha acquisito una sua indipendente identità statuale. Può forse darsi allora che quella terra contenga minerali preziosi che facciano gola alle nostre industrie? Purtroppo, nemmeno questa è la sua peculiarità.
Allora perché tutta questa generosità finanziaria e la volontà di includerla a tutti i costi nel “blocco occidentale”?
Per gli addetti ai lavori la risposta è chiara: quel Paese è un tassello della politica di “accerchiamento” della Russia che Washington persegue oramai da molti anni e che Bruxelles ha pedissequamente sposato.
Ma cosa ne pensano i georgiani? Nonostante i numerosi sforzi e le continue missioni americane, la popolazione è divisa praticamente a metà tra chi vuole mantenere relazioni ottimali con Mosca e chi invece spinge esclusivamente per entrare nella Nato e nell’Unione Europea.
Il partito di maggioranza (Sogno Georgiano) gode dei maggiori sostegni popolari dal 2012, anno delle prime elezioni veramente democratiche, ed oggi è al governo in coalizione con il Partito Repubblicano di Georgia. Entrambi hanno condotto le loro ultime campagne elettorali confermando la volontà di aprirsi all’Europa ma migliorando, contemporaneamente, le relazioni con la Russia interrotte a causa della guerra del 2008, voluta dall’allora presidente Shakasvili. Il fatto che una politica di equidistanza corrisponda alla democratica volontà della maggioranza è confermato dai risultati elettorali di entrambe le due ultime elezioni che hanno appunto premiato i partiti favorevoli al mantenimento dei rapporti positivi con Mosca.
Comunque sia, come in Ucraina sono poteri esterni a giocare anche lì una loro partita. In questo caso, oltre agli Usa e all’Europa ci sono la Turchia e la Cina che sperano anch’esse di trarne vantaggi geopolitici. La Turchia da tempo non nasconde le proprie ambizioni su tutto il Caucaso ma in Georgia ha la scusante del gasdotto azero che arriva sulla costa turca di Ceyhan passando proprio per Tbilisi. Ankara ha pure un altro motivo per interessarsi alla Georgia ed è il tentativo di fermare in qualche modo il progetto di un nuovo porto georgiano ad Anaklia che, indubbiamente, costituirebbe una concorrenza ai porti sulla propria costa del Mar Nero. La Cina vi intravede invece un punto di passaggio per una delle varianti della sua “Nuova Via della Seta” che non passi dal territorio russo. Nonostante sia la Turchia che Pechino siano attualmente alleate di Mosca, non esitano a stringere accordi di vario genere che possano vincolare quel Paese ai propri obiettivi e, per far questo si propongono come “parte terza” tra la Russia e l’occidente. Non casualmente i cinesi si erano offerti, suscitando le ire americane, di cofinanziare la costruzione del porto di Anaklia proponendosi pure come gestori dello scalo. Rifiutati, hanno comunque continuato a cercare di esercitare la loro influenza. Lo scorso maggio, il ministro degli Esteri Wang Yi è stato in visita nella capitale georgiana per implementare un accordo di libero scambio già firmato nel 2017. Naturalmente la bilancia commerciale resta pesantemente a favore dei cinesi ma ben il 5% dell’export georgiano è destinato al Paese del Dragone.
Gli americani sono comunque quelli che investono più di tutti nel paese per cercare di sottrarlo definitivamente all’influenza russa e legarlo a sé. Le visite di parlamentari del Congresso si ripetono continuamente e sia USAID sia organizzazioni ufficialmente indipendenti vi finanziano varie iniziative. Così come altrove il loro soft power si manifesta soprattutto nel settore educativo per la gioventù e nell’insegnamento della governance ai funzionari pubblici. Se si deve “esportare la democrazia” occorre insegnare quale sia quella “vera”!
Durante una visita del primo ministro georgiano a Washington, il Segretario di Stato Mike Pompeo lo ha duramente rimproverato (l’espressione usata in inglese/americano: dressing-down. Credo che noi potremmo tradurlo: lavata di capo) per aver intensificato i rapporti con Pechino, ricordando in questo modo che gli “aiuti” a stelle e strisce non potevano essere considerati “gratuiti”. Ha pure aggiunto che “Cina e Russia sono dei pretesi amici che non hanno certo a cuore i migliori interessi della Georgia”. Gli americani sono invece, ovviamente, amici sinceri e disinteressati. Il piccolo esercito locale ha partecipato anche a ricorrenti esercitazioni comuni con le truppe Nato e missili anticarro americani Javelin rientrano nel pacchetto di armi vendutegli dagli Usa. Voci ricorrenti sostengono che il futuro porto di Anaklia potrebbe diventare una nuova base americana nel Mar Nero e, benché si tratti soltanto di un’ipotesi, ciò che è certo è che la sua gestione sarà affidata alla società SSA Marine di Seattle (USA).
Tutte queste presenze, siano esse desiderabili o meno, non possono non avere conseguenze anche sulla politica interna. Lo scorso 20 giugno una riunione di parlamentari fedeli alle Chiese ortodosse di una ventina di Paesi è stata ospitata nella sede del Parlamento georgiano. Quando lo scranno della presidenza è toccato al deputato russo Gavrilov che, naturalmente, ha parlato nella sua lingua madre, un folto numero di attivisti legati all’ex presidente Shakasvili ha cominciato a manifestare furiosamente fuori dall’aula urlando alla “provocazione”. Ne sono seguiti disordini talmente violenti da portare alle dimissioni del Presidente dell’Assemblea che aveva autorizzato la riunione. Da allora i disordini sono continuati con dichiarazioni e manifesti fortemente anti-russi. Più tardi i rivoltosi hanno avanzato la richiesta che le prossime elezioni fossero tenute con un metodo totalmente proporzionale e senza alcuna soglia di sbarramento. Il sistema elettorale attuale prevede che la metà dei 150 deputati sia eletto con il metodo maggioritario e che esista uno sbarramento al 3 percento. Quello in vigore è, evidentemente, un sistema già ben più proporzionale di quello in vigore nella democratica Gran Bretagna (totalmente maggioritario), eppure, chissà perché, Bruxelles si è subito spesa nel dichiarare che quello chiesto dai manifestanti sarebbe stato “più democratico”. Per cambiarlo sarebbe stata necessaria una modifica costituzionale da ottenersi con una maggioranza qualificata. Il governo si è dichiarato disponibile ad accogliere la richiesta e lo scorso 14 novembre il Parlamento ha proceduto al voto. Sui centocinquanta possibili votanti il numero di favorevoli necessario doveva essere di almeno 113, ma l’emendamento costituzionale ha ottenuto solamente 101 voti. La modifica è stata quindi bocciata. Immediatamente sono scoppiate nuove ribellioni, obbligando la polizia a intervenire persino con i cannoni ad acqua per evitare distruzioni di proprietà pubbliche e private. Subito il Congressman americano Adam Kinzinger che, forse non casualmente, era presente per partecipare al 13mo Georgia Defense and Security Conference, si è premurato di criticare quel voto parlamentare e di chiedere che venisse ripetuto al più presto. Forse ha dimenticato che lui stesso era eletto negli USA con un sistema per nulla proporzionale.
La verità è che, fino a ora, il sistema vigente aveva dato la maggioranza a quei partiti che chiedevano l’appianamento delle divergenze con la Russia e, nella speranza dei richiedenti, un diverso metodo di votazione avrebbe potuto dare maggiore forza a chi propende invece per un più stretto legame con l’occidente.
Di certo, noi che siamo occidentali siamo anche “democratici” e difendiamo (sempre?) le espressioni della volontà popolare. In particolare quando essa coincide con i nostri desideri.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.