Giappone e Germania tornano a puntare sul nucleare

di C. Alessandro Maceri –

Il Giappone ha annunciato l’avvio di un nuovo piano per l’energia nucleare, ed il premier Kishida ha annunciato la costruzione di nuove centrali nucleari di ultima generazione. La giustificazione è garantire la sicurezza energetica del paese, nel medio e lungo termine. Anche a breve termine però non mancheranno le novità: è previsto il riavvio di 17 reattori nucleari entro l’estate del prossimo anno. Intanto sono stati riattivati 5 dei 54 reattori nucleari di cui il Giappone dispone, che erano stati spenti dopo il disastro di Fukushima del 2011.
Si tratta di una decisione che segna una svolta nella politica energetica del Giappone. Dopo Fukushima il governo aveva fatto intendere che avrebbe cercato di ridurre la produzione di energia elettrica mediante il nucleare. Tra i motivi del cambio di rotta, la crisi globale conseguenza del conflitto in Ucraina che in Giappone si è tradotta in un netto peggioramento della bilancia commerciale.
Il “paese del Sol levante” non è l’unico a ripensare al nucleare per la produzione di energia elettrica. Gli impegni internazionali per la riduzione delle emissioni di CO2 da un lato e dall’altro il costo dei combustibili fossili che è tornato a crescere a livelli ingiustificati stanno spingendo diversi paesi a rivedere le proprie posizioni sul nucleare. In Germania ad esempio, per sopperire alla carenza di gas dalla Russia, si sta valutando la possibilità di prolungare la vita alle tre centrali nucleari ancora attive. Un cambiamento che potrebbe avere conseguenze (anche politiche) imprevedibili. La decisione di rinunciare al nucleare tedesco risale alla fine degli anni Novanta: a decidere la graduale eliminazione delle centrali nucleari presenti sul territorio fu la coalizione di governo di socialdemocratici e Verdi. Nel 2010, durante il governo di Angela Merkel, si decise di cambiare programma e di prolungare la vita dei reattori nucleari fino al 2035. Nel 2011 nuovo cambio di programma: fu la stessa Angela Merkel, dopo il disastro della centrale di Fukushima, a cambiare idea. Ora un nuovo cambiamento: il 3 agosto scorso il cancelliere Olaf Scholz, basandosi su una perizia commissionata dallo stesso governo, ha deciso di prolungare la vita delle centrali nucleari ancora attive. Una decisione criticata dal ministro dell’Ambiente federale per il quale la perizia non motiverebbe a sufficienza le certificazione da rilasciare per garantire la sicurezza. Una decisione, quella del governo tedesco, che va contro i Verdi, ma che gode del bene placet dell’opposizione. Tutto questo nonostante i rischi e i problemi connessi con la possibilità (già avanzata) di ravviare alcune centrali spente negli ultimi mesi del 2021 e per le quali erano già iniziate le procedure di smantellamento (centrali di Brokdorf nello Schleswig Holstein, Grohnde in Bassa Sassonia e Gundremmingen C in Baviera).
In Germania secondo i dati ufficiali (2020) il 53% dell’energia è stata prodotta da fonti fossili (carbone 25%, gas e metano 14%), il 47% da fonti alternative (eolico, solare, fotovoltaico e biomasse) e “solo” il 12% dal nucleare. Appare inspiegabile la decisione di tornare al nucleare (con i rischi e i problemi tecnici che comporta) invece di aumentare la percentuale legata alle fonti energetiche eco-sostenibili, molto meno pericolose.
Una decisione, quella del governo tedesco, non diversa da quella presa da altri paesi come la Cina, e che solo in parte è riconducibile alla carenza di scorte di combustibili fossili o alla necessità di ridurre le emissioni di CO2. Sono queste le due giustificazioni solitamente addotte dai governi per tornare o aumentare la produzione di energia dal nucleare. La prima, quella legata alla riduzione delle emissioni di CO2 e quindi ai cambiamenti climatici, non può non tenere conto dei rischi connessi con la produzione di energia dal nucleare e con l’obbligo di trattare i rifiuti delle centrali nucleari con tempi (e costi) enormi. La seconda, quella legata alla volontà di ridurre la dipendenza da fornitori di energia stranieri, è ancora meno credibile dato che non libera dalla dipendenza dall’estero. L’uranio per le centrali nucleari viene estratto principalmente in Canada e in paesi come Namibia, Niger e Kazakistan. Un altro aspetto da tenere in considerazione è l’età media dei reattori e i costi di manutenzione e dismissione: dopo circa 40 anni alcuni componenti chiave dei reattori devono essere sostituiti o rinnovati. Ma anche dopo questi interventi di manutenzione, costosissimi, le licenze rinnovate non vanno oltre i 10-20 anni. Questo significa che dopo 50 o 60 anni una centrale nucleare deve essere definitivamente dismessa.
Tra i motivi che spingono molti paesi di gettarsi a capofitto sul nucleare forse c’è la possibilità di vendere parte dell’elettricità generata dall’energia nucleare all’estero, come avviene in Francia. Attualmente sono 32 i paesi in cui sono attive centrali nucleari per la generazione di elettricità. Al primo posto c’è proprio la Francia con il 70,6%. Seguono Slovacchia e Ucraina, rispettivamente con il 53,1% e il 51,2%. Gli Stati Uniti producono più terawatt all’ora di elettricità generata dall’energia nucleare rispetto ad altri paesi, ma la loro “quota” prodotta con il nucleare (19,7%) è inferiore.
A preoccupare non sono la decisione del Giappone o quella della Germania, ma la situazione a livello globale. Nel mondo sono 439 i reattori attualmente in funzione. E altri 55 sono già in costruzione. Le previsioni dell’Outlook on Net Zero Emissions by 2050 (NZE2050) dell’AIE parlano di una produzione da nucleare che continuerà ad aumentare fino al 2030 (del 36%). in termini assoluti questo significa che, stando alle stime, nei prossimi anni saranno costruiti oltre 200 nuovi reattori. Previsioni confermate dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite che parlano di un aumento del 60% della produzione nucleare tra il 2019 e il 2030.
Tanti studi, programmi politici, previsioni nessuno dei quali però considera quella che sarebbe la vera soluzione al problema, sia delle emissioni di CO2 che del rischio nucleare) la riduzione dei consumi di energia elettrica. Nessuno degli studi parla di questa possibile soluzione. Non viene presa nemmeno in considerazione la possibilità di convincere i cittadini e le industrie e l’agricoltura a consumare di meno, a “risparmiare” energia. Si cerca solo come produrne di più. Sempre di più. Poco importa se questo comporterà comunque rischi per l’ambiente e per l’umanità.
Al peggio, invece di parlare di ridurre le emissioni di CO2, si comincerà a parlare di ridurre gli effetti delle radiazioni….