Giappone e Thailandia, avvicendamenti dinastici

Iniziano le ere di Naruhito e Rama X.

di Gianluca Vivacqua

Il mese di maggio è iniziato con due successioni epocali sui troni di Giappone e Thailandia. Nel Sol Levante l’imperatore Akihito dopo trent’anni di regno (era salito sul soglio imperiale nel 1989, dopo la morte del padre Hirohito) ha deciso di abdicare in favore del figlio primogenito Naruhito: una cosa simile non succedeva dal 1817, da quando Kokaku si ritirò per dar spazio al quarto figlio, Ninko. A sua volta Naruhito è già destinato a fare qualcosa di altrettanto sensazionale per la sua successione dal momento che, quando sarà l’ora, lascerà il trono non ad un figlio maschio, ma ad una femmina, la principessa Aiko: questa diventerà la dodicesima imperatrice della storia nipponica (o l’undicesima, se si tiene conto che la prima della lista, Jingu, è stata rimossa dall’elenco degli imperatori nel XIX secolo), a distanza di più di due secoli dall’ultima, Go-Sakuramachi (1762-71). Di certo, le cronache avranno tempo per rimarcare questo e altri particolari: a noi ora interessa piuttosto fare un bilancio dell’impero di Akihito, uno dei coronati più anticonformisti mai sedutisi sul trono di Jinmu Tenno. Molto prima che decidesse l’abdicazione, infatti, fece già parlare di sé e parecchio per aver sfidato le plurisecolari tradizioni della casa imperiale sposando una donna comune, Michiko Shoda. Senza contare che fu il primo a diventare imperatore senza prerogative divine.
Uomo di vari e inaspettati interessi, ad esempio l’ittiologia, educato da una precettrice americana, Akihito, al secolo Heisei, ricevette l’investitura ufficiale come principe ereditario nel 1952. Instancabile viaggiatore, nel trentennio in cui fu sul trono compì 18 tour internazionali e visitò 47 prefetture nipponiche. Soprattutto si spese per favorire una riapertura delle relazioni diplomatiche con le Coree e la Cina: e non si tirò indietro nel porgere le scuse di Stato per le sofferenze provocate dall’occupazione giapponese negli anni della Seconda guerra mondiale. Ebbe a che fare con 18 premier, pochi quelli di lunga durata: parliamo di Kiichi Miyazawa (1991-93), Ryutaro Hashimoto (1996-98), Keizo Obuchi (1998-2000), Jun’ichirō Koizumi, vero recordman e in un certo senso il Gladstone dell’età akihitiana (2001-06), e poi Shinzo Abe, una specie di Disraeli, l’unico a cui sia riuscito un bis non consecutivo di mandati. Dopo una prima esperienza alla guida del governo nel 2006-07 infatti Abe è tornato saldamente a capo dell’esecutivo nel 2012, e proprio a lui è toccato gestire la transizione da un imperatore all’altro.

Rama X.

Nel frattempo in Thailandia Rama X veniva ufficialmente incoronato come decimo monarca della dinastia Chakri. Sovrano in realtà Rama X lo era sin dall’ottobre 2016, cioè da quando era morto il padre, Rama IX, ma egli preferì non salire subito al trono per osservare un periodo di lutto. Tale periodo durò per ben due anni, nel corso dei quali ebbe pieni poteri il presidente del Consiglio privato del sovrano, il generale Prem Tinsulanonda, già premier-tiranno thailandese dal 1980 all’88. Una pratica, questa dell’interregno autorizzato in coincidenza con un lutto, che potrebbe apparire singolare se non si considerasse che, per una figura come quella del padre, si trattava di un omaggio dovuto, quasi richiesto dalla nazione. Sovrano per più di settant’anni, Rama IX poté infatti fregiarsi di quello stesso titolo che ebbero, in altre epoche lo zar russo Pietro I e Federico II di Prussia. A farglielo meritare fu senz’altro il suo ruolo di restauratore della centralità della monarchia e di custode del buddhismo tradizionale (per un certo periodo della sua vita fu egli stesso monaco buddhista). Di certo però la definizione di re-sacerdote oscurantista gli si attaglierebbe malamente: per tutta la durata del suo regno si sforzò anzi di interpretare al meglio le istanze modernizzatrici del paese, favorendo con convinzione un saldo agganciamento politico agli Stati Uniti. Grande, in ossequio al suo epiteto così come all’altro titolo di tipo augusteo che gli fu attribuito, “padre della nazione”, Rama IX si dimostrò anche per l’impegno profuso in prima persona nel sociale: forte di un patrimonio di 30 miliardi di dollari, finanziò innumerevoli progetti per lo sviluppo del suo popolo, in campo ambientale, agricolo, sanitario e per favorire l’occupazione giovanile. E, proprio come Akihito in Giappone, amò molto viaggiare nel suo Paese, cosa che accrebbe considerevolmente la sua popolarità. In politica interna però fu tutt’altro che una figura di garanzia imparziale: se, infatti, il suo regno fu un alternarsi continuo di governi democratici brevi ed effimeri e di ben più lunghe parentesi dittatoriali, questo lo si dovette in buona parte ad una sua precisa scelta di regista. Proprio questo “vizietto” di troncare all’improvviso governi eletti e non graditi con il classico stratagemma del colpo di stato rischiò, negli ultimi dieci anni in cui fu al trono di far precipitare la Thailandia nella guerra civile, con una parte del Paese schieratasi e organizzatasi come forza combattente (le “camicie rosse”) al fianco del premier destituito Thaksin Shinawatra. A quell’epoca tuttavia il re era già stanco e malato: fosse stato ancora in forze, avrebbero giurato le centinaia di migliaia di sudditi che il 26 ottobre 2017 si ritrovarono nel campo reale di Bangkok per la cerimonia della sua cremazione, il primo pensiero del sovrano sarebbe stato in ogni caso proteggere la popolazione. Come dimostrò nell’ormai lontano 1973, quando non esitò ad aprire le porte del suo palazzo agli studenti insorti contro il governo di Thanom Kittikachorn, perché scampassero alla repressione: il tempo di quel dittatore era terminato, e il re si apprestava a mettere in scena un intermezzo di democrazia.