di Giuseppe Gagliano –
Nel fine settimana appena trascorso la portaerei cinese Liaoning, accompagnata da due cacciatorpediniere lanciamissili e da una nave da rifornimento veloce, ha compiuto un’incursione simbolica e strategica nelle acque economiche del Giappone. Un movimento studiato, calibrato, eppure senza precedenti: è la prima volta che una formazione navale di quel calibro entra in quella porzione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) nipponica, a circa 300 chilometri a sud-ovest dell’isola di Minamitori.
Per Tokyo non è solo una questione di presenza navale. È un segnale: Pechino vuole dimostrare che è in grado non solo di proiettare potenza a lunga distanza, ma anche di ridefinire i confini della consuetudine marittima nella regione Asia-Pacifico. Come ha spiegato il portavoce del Ministero della Difesa giapponese, la Cina “sta cercando di migliorare la propria capacità operativa in aree distanti”. Il che, in linguaggio geopolitico, vuol dire che il Dragone ha abbandonato ogni approccio difensivo. È ora un attore marittimo a pieno titolo, capace di condurre esercitazioni e manovre anche lontano dal Mar Cinese Meridionale.
Il Giappone ha reagito con cautela: il governo ha “trasmesso un messaggio appropriato” a Pechino, senza spingersi però fino a una protesta formale. Ma Tokyo non è rimasta a guardare. La nave da guerra Haguro è stata inviata nell’area per monitorare i movimenti cinesi. E nei giorni successivi, l’esercito giapponese ha registrato decolli e atterraggi di aerei da combattimento ed elicotteri cinesi dal ponte della Liaoning, in un chiaro segnale di dimostrazione di forza.
Questa dinamica non è isolata. Già a maggio, la stessa portaerei aveva attraversato le acque tra le isole meridionali del Giappone, e l’anno scorso era entrata nelle acque contigue giapponesi vicino a Taiwan, provocando dure reazioni da parte di Tokyo. Il messaggio è chiaro: la Cina sta testando i limiti della tolleranza giapponese e occidentale, ridisegnando gradualmente la geografia della deterrenza nella regione indo-pacifica.
Nel frattempo, le tensioni bilaterali si moltiplicano. Verso la fine di maggio, il Giappone ha accusato Pechino di aver condotto operazioni di ricerca scientifica marittima non autorizzate nella ZEE giapponese, vicino all’atollo di Okinotori. La risposta cinese non si è fatta attendere: l’ambasciata a Tokyo ha accusato il Giappone di aver violato lo spazio aereo cinese attorno alle isole contese con un aereo civile, denunciando “una grave violazione della sovranità”.
In gioco non ci sono solo acque e rocce. C’è il principio stesso di sovranità marittima sancito dal diritto internazionale. La ZEE, estesa fino a 370 km dalla costa, dà diritto esclusivo allo sfruttamento economico delle risorse naturali, ma non implica un divieto automatico di passaggio. Tuttavia, è proprio su questa ambiguità che si costruisce il confronto sino-giapponese: Pechino esercita una pressione costante sulle linee rosse del diritto internazionale, sfruttando ogni varco per legittimare una presenza militare crescente.
Dietro la vetrina delle esercitazioni, il gioco è politico. La Cina mostra ai suoi alleati e rivali – dagli Stati Uniti alle Filippine, dal Vietnam all’India – che è pronta a sfidare l’ordine marittimo liberale imposto dopo la Seconda guerra mondiale. E se il Giappone, sotto la guida del premier Kishida, sta cercando di rafforzare il proprio ruolo difensivo, anche attraverso una revisione costituzionale, la pressione navale cinese ne accelera i tempi e ne giustifica le spese.
Nel Pacifico orientale, dunque, non si assiste solo a una corsa agli armamenti, ma a una partita di posizionamento. Ogni passaggio navale, ogni volo militare, ogni esercitazione ha un valore strategico e simbolico. La Liaoning e le sue manovre servono a ribadire che Pechino non intende più limitarsi a difendere i propri confini: vuole imporre la propria presenza, contestare quella degli altri e, lentamente, riscrivere le regole del gioco.