di Giuseppe Gagliano –
Il governo della Giordania ha disposto la consegna dei beni legati ai Fratelli Musulmani, con un ultimatum di un mese. La cosa segna un punto di svolta nella campagna del Regno per smantellare l’influenza di uno dei movimenti islamisti più radicati del mondo arabo. L’annuncio, diramato ieri dal Ministero dello Sviluppo Sociale, non è un fulmine a ciel sereno, ma l’ultimo atto di una strategia che intreccia sicurezza nazionale, politica interna e dinamiche regionali. Dietro questa mossa si cela un calcolo complesso, che riflette le sfide di un Paese stretto tra la necessità di stabilità e le pressioni di un contesto mediorientale in ebollizione.
La direttiva, che impone di dichiarare ogni bene mobile o immobile legato alla Fratellanza, si basa su una sentenza del 2020 che ha dichiarato il gruppo sciolto dal 1953. Questo tecnicismo legale è il grimaldello con cui Amman sta cercando di chiudere i conti con un’organizzazione che, pur avendo operato per decenni in una zona grigia di tolleranza, è ora percepita come una minaccia. La criminalizzazione delle attività della Fratellanza, l’arresto di 16 presunti affiliati accusati di pianificare attacchi terroristici e la condanna di quattro individui a 20 anni di carcere per complotti contro la sicurezza nazionale disegnano un quadro chiaro: il Regno non intende lasciare spazio a incertezze.
Ma cosa spinge la Giordania a un’azione così drastica? La risposta va cercata in un intreccio di fattori. In primo luogo la sicurezza interna. Le autorità hanno collegato alcuni membri della Fratellanza al contrabbando di armi verso la Cisgiordania occupata, un’attività che rischia di destabilizzare non solo i territori palestinesi, ma anche la stessa Giordania, che condivide un confine poroso con Israele. Le accuse di addestramento in Libano e di complotti con razzi e droni, se confermate, giustificherebbero la linea dura di Amman, che non può permettersi di apparire debole di fronte a minacce terroristiche.
In secondo luogo c’è la politica interna. Il Fronte d’Azione Islamica (IAF), braccio politico della Fratellanza, è diventato il principale blocco di opposizione dopo le elezioni del settembre 2024. La sua crescita preoccupa la monarchia hashemita, che teme un’opposizione organizzata capace di capitalizzare il malcontento sociale in un Paese alle prese con crisi economiche croniche e un alto tasso di disoccupazione. Perquisendo gli uffici dell’IAF e lasciando aperta la possibilità di scioglierlo, il governo manda un segnale: nessuna forza politica può sfidare l’autorità dello Stato, soprattutto se sospettata di legami con un gruppo ormai dichiarato illegale.
Sul piano regionale la repressione della Fratellanza si inserisce in un contesto più ampio. La Giordania, alleata chiave degli Stati Uniti e partner di Israele tramite gli Accordi di Abramo, deve bilanciare il suo ruolo di mediatore con la necessità di contenere movimenti islamisti che potrebbero attirare l’attenzione di potenze rivali, come l’Iran, o destabilizzare ulteriormente la regione. La Fratellanza, pur dichiarandosi pacifica, rimane un attore controverso, con ramificazioni in Paesi come Egitto e Arabia Saudita, dove è stata bandita, e in altri, come il Qatar, dove gode di appoggi. Amman, in questo senso, sembra allinearsi a una linea dura condivisa da altri regimi arabi, pur mantenendo una certa cautela per non alienare la propria base conservatrice.
Tuttavia la strategia giordana non è priva di rischi. La repressione potrebbe radicalizzare alcuni elementi della Fratellanza, spingendoli verso azioni clandestine o alleanze con gruppi più estremisti. Inoltre, colpire l’IAF rischia di alienare una fetta dell’elettorato, alimentando tensioni sociali in un momento in cui il Regno ha bisogno di coesione. Infine, la narrativa della Fratellanza come minaccia terroristica, pur supportata da alcune prove, potrebbe essere percepita come un pretesto per soffocare il dissenso, danneggiando la credibilità della monarchia agli occhi della comunità internazionale.
In questo scenario, la Giordania si muove su un filo sottile. Da un lato, cerca di riaffermare il controllo su un attore politico e ideologico che percepisce come una sfida alla sua sovranità. Dall’altro, deve evitare di trasformare la repressione in un boomerang che destabilizzi ulteriormente il Paese. La confisca dei beni della Fratellanza è solo un tassello di un mosaico più ampio, in cui Amman gioca una partita delicata per preservare la sua stabilità in un Medio Oriente sempre più frammentato.