Golfo Persico: qualcuno sta cercando un “casus belli”?

di Giovanni Ciprotti

Sale la tensione intorno allo Stretto di Hormuz. Negli ultimi giorni alcune navi hanno riportato danni in circostanze non ancora chiarite. Collisione, incidente o altro? Prima gli Emirati Arabi e poi l’Arabia Saudita hanno parlato di gravi “atti di sabotaggio”. Successivamente anche Washington li ha considerati sabotaggi e ne ha addossato la responsabilità a Teheran. Puntuale è arrivata la smentita del governo iraniano, che ha respinto qualsiasi accusa di coinvolgimento nei fatti incriminati.
I Paesi dell’area hanno preannunciato l’avvio di inchieste per accertare la dinamica dei fatti, ma nel frattempo ci sono state le prime conseguenze.
In Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sono state installate batterie di missili Patriot. Secondo il New York Times, che cita fonti del Pentagono, il Segretario (ad interim) alla Difesa Patrick Shanahan ha presentato un piano per inviare nel Golfo Persico 120.000 soldati nel caso la situazione dovesse precipitare.
Gli elementi disponibili ad oggi non consentono di stabilire se si è trattato di sabotaggi e, nel caso, se dietro ad essi c’è stata la regia dell’Iran. Si può però provare a ricostruire il percorso che ha portato all’ulteriore deterioramento nei rapporti tra Teheran e Washington.
Il punto di partenza della non può che essere l’accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) che l’Iran ha firmato nel 2015, con i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’Unione Europea, per regolare l’uso delle tecnologie nucleari.
Sin dalla sua elezione alla Casa Bianca, Donald Trump manifestato l’intenzione di ritirarsi dall’accordo, che a suo dire non tutelava gli interessi statunitensi. Malgrado i pareri contrari degli altri Paesi firmatari e la conferma che l’Iran stava rispettando gli impegni assunti, l’8 maggio 2018 Trump ha ufficializzato l’uscita dall’accordo.
L’attuale amministrazione statunitense non ha mai risparmiato accuse di varia natura al governo di Teheran, per il mancato rispetto dei diritti politici e umani al proprio interno oppure per l’attivismo nei teatri mediorientali, in particolare quello siriano.
Alla sconfessione dell’accordo da parte di Trump ha fatto seguito la decisione di Washington, dal novembre 2018, di proibire all’Iran di vendere all’estero il proprio petrolio. Dal divieto erano stati temporaneamente esentati otto Paesi, ma dal 1° maggio 2019 le esenzioni non sono state rinnovate e quindi il divieto USA sul greggio iraniano – con corrispondenti sanzioni economiche per gli eventuali Paesi compratori – è divenuto totale. Per prevenire squilibri nelle forniture di greggio a livello internazionale, Washington ha concordato con Arabia Saudita e Emirati Arabi un aumento della produzione di petrolio per il blocco delle esportazioni iraniane. Dal punto di vista di Teheran, all’ingente danno economico si aggiunge la beffa del corrispondente vantaggio per l’Arabia Saudita, nazione al quale contende lo status di Paese-guida nel mondo islamico.
Prima ancora che scoppiasse il caso delle navi danneggiate, la portaerei USS “Abraham Lincoln” era stata già inviata nella zona dopo la stretta statunitense sul petrolio iraniano e le successive minacce dell’Iran di bloccare lo Stretto di Hormuz come risposta al blocco statunitense.
In un clima che diviene sempre più infuocato, anche un gesto male interpretato potrebbe innescare un conflitto dalle conseguenze imprevedibili.
Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti iniziano o intensificano un conflitto a partire da un episodio classificato – erroneamente o volutamente – come atto di sabotaggio o di aggressione.
La guerra in Vietnam conobbe un punto di svolta nell’agosto 1964, quando gli Stati Uniti sostennero che motosiluranti nordvietnamite avevano “deliberatamente” aperto il fuoco contro l’USS “Maddox”, un cacciatorpediniere americano in ricognizione nelle acque del golfo.
L’episodio, abilmente sfruttato per sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense, portò il 7 agosto 1964 all’approvazione, da parte del Congresso americano, della “Risoluzione del Golfo del Tonchino”, grazie alla quale il presidente Lyndon B. Johnson ricevette i poteri per intensificare l’intervento militare americano in Vietnam.
L’inchiesta di Edwin Moise del 1996 e documenti coperti da segreto pubblicati nel 2006 rivelarono che l’aggressione da parte dei nordvietnamiti non c’era stata: il “casus belli” era stato inventato per forzare la mano al Congresso statunitense.
Risalendo più indietro nel tempo troviamo un caso in cui l’episodio scatenante fu reale, ma errate furono le attribuzioni delle responsabilità.
Nel febbraio 1898 la corazzata americana “Maine” gettò l’ancora nel porto cubano dell’Avana (Cuba era a quei tempi una colonia spagnola e in quel periodo nell’isola erano scoppiati disordini a causa del movimento indipendentista cubano), ufficialmente con l’obiettivo di proteggere i cittadini statunitensi residenti nell’isola. Pochi giorni dopo la corazzata saltò in aria, provocando la morte di 266 marinai. Il governo statunitense sposò immediatamente la tesi del sabotaggio da parte spagnola, anche se non era dimostrabile. Nei mesi successivi la tensione tra americani e spagnoli crebbe a tal punto che il 15 maggio 1898 le navi da guerra americane attaccarono la flotta spagnola di stanza nelle Filippine. La guerra, accompagnata dallo slogan “Ricordatevi del Maine!” durò solo un paio di mesi e vide vittoriosi gli Stati Uniti, che ottennero le Filippine, da allora governate come protettorato fino alla seconda guerra mondiale, Porto Rico e un effettivo controllo su Cuba, sebbene mascherato da una formale indipendenza dell’isola caraibica.
Lo storico Mario Del Pero dedica un passaggio significativo all’episodio del “Maine” che scatenò la guerra ispano-americana:
“I media e molti politici attribuirono immediatamente la colpa alla Spagna. Una prima commissione di inchiesta assegnò la paternità dell’esplosione a una mina sottomarina. Si era trattato invece di un incidente, causato probabilmente da un incendio nei depositi della sala macchine. Ma l’incidente offrì un pretesto aggiuntivo a un’amministrazione già orientata all’intervento” [cfr. Mario del Pero “Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006”, Laterza, 2008, pagg. 167-168].
Nel settembre 2000 il think tank “The Project for the New American Century” pubblicò un corposo rapporto dal titolo “Rebuilding America’s Defences. Strategy, forces and resources for a New Century”, in cui si leggeva: “Non possiamo consentire alla Corea del Nord, all’Iran, all’Iraq o a stati simili di minare la leadership americana, intimidire gli alleati americani o minacciare la stessa patria americana” [cfr. pag. 75].
Il presidente del Project era William Kristol, esponente di spicco dei “neoconservatives”. Uno dei direttori era John Bolton, l’attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Donald Trump.