di Giovanni Caruselli –
I popoli non amano le cattive notizie e ancora meno i profeti di sventure. E siccome la democrazia si basa sul consenso popolare, solo chi non aspira a tale consenso può esporre dati, ragionamenti e conclusioni tutt’altro che entusiasmanti. Economisti e politologi non sono nè profeti nè visionari, semplicemente si impegnano a interpretare linee di tendenza e mutamenti in atto che, per altro, non sono segreti di stato in quanto qualunque cittadino moderatamente alfabetizzato potrebbe trovarli in un’infinità di pubblicazioni e link, se solo volesse farlo. Per esempio analizziamo la situazione dell’industria automobilistica europea con l’ausilio della matematica. La cinese BYD ha preannunciato il lancio di una nuova auto elettrica con un’incredibile autonomia di 2mila km al prezzo di circa 13.800 euro. Ovviamente i dazi europei e americani faranno lievitare non poco questa cifra, ma quello che colpisce di più è la velocità con cui sotto l’altra metà del cielo si passa dalla progettazione al prodotto finito, cioè circa 2 anni contro i quattro tedeschi. Si prevede che nel giro di un anno o poco più la metà dei veicoli che saranno venduti in Cina saranno elettrici. Ovviamente dietro questa crescita c’è l’aiuto poderoso dello Stato che infrange una delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e comunque la concorrenza con le industrie dell’auto occidentali sarà feroce. Impressionanti sono anche i profitti: da un SUV cinese esportato il produttore asiatico ricaverà una cifra 11 volte superiore rispetto a un SUV occidentale. Già da Luglio l’Unione Europea ha aggiunto al dazio in vigore del 10% dazi aggiuntivi che potrebbero arrivare al 38%. Ora si sta discutendo in sede Ue su come proteggere l’industria automobilistica europea, ma neanche a dirlo, i 27 non perdono l’occasione per manifestare la loro disunione. Dieci a favore, cinque contro e dodici astenuti. Italia e Francia hanno votato per nuove tariffe fino al 35% (che si sommano al 10% già in vigore). La Germania teme le ritorsioni di Pechino sull’export tedesco, mentre gli altri Paesi guidati dalla Spagna si sono mossi fra queste due scelte estreme. La Germania ha tentato di resistere sulle sue posizioni liberiste anche perchè fabbrica in Cina e importa in Europa circa sei milioni di automobili, che sarebbero sottoposte anch’esse ai dazi che colpiranno le auto cinesi. Fino ad oggi le importazioni europee dalla Cina sono state in gran parte costituite da auto Tesla, Dacia e Bmw (dati di Transport & Environment). Purtroppo non esiste la coesistenza pacifica nell’economia globale e le guerre commerciali sono evitabili solo entro certi limiti. I dazi dovrebbero entrare in vigore il 30 ottobre e avere la durata di 5 anni. Tuttavia sembra che si continuerà a negoziare in sede OMC, anche perchè innescare una escalation protezionistica sarebbe troppo pericoloso per ambedue le parti. Che il confronto sia stato duro è comprensibile perché si trattava di decidere la sorte di 14 milioni di posti di lavoro di fronte a un Paese che non rispetta le regole dell’OMC, finanziando con fondi statali le industrie private. Le ritorsioni cinesi sulla carne suina spagnola, sul cognac francese e sui prodotti lattiero caseari si danno per scontate. E naturalmente dazi sulle ammiraglie diesel delle case automobilistiche tedesche.
L’aggressione al mercato automobilistico europeo arriva dopo due esperienze analoghe: quella relativa all’epidemia di Covid-19, durante la quale il Vecchio continente è stato costretto a chiedere dispositivi medici alla Cina, e quella ancora in atto che fa arrivare dall’Asia turbine eoliche e pannelli solari realizzati in tempi incredibilmente brevi e a prezzi super concorrenziali. Malgrado le sue disavventure nel campo dell’edilizia la Cina continua a riversare in Europa un surplus di prodotti che sembrano rendere impossibile una partnership equilibrata. Soprattutto se a ciò si aggiunge il fatto che Pechino esporta in Europa parti di componentistica in quantità rilevanti.
La Cina ha un mercato interno ancora limitato, ma i consumatori cinesi incominciano ad acquistare automobili casalinghe e il paradiso delle esportazioni della Volkswagen si riduce alle vecchie auto a combustione interna. Si poteva prendere qualche precauzione? Secondo alcuni economisti e alcuni manager si poteva. Per esempio dare inizio al mercato delle auto elettriche puntando quasi esclusivamente sulla fascia alta del mercato, trascurando i consumatori meno abbienti, leggi Tesla, probabilmente non è stata una strategia vincente. Forse poteva andare bene in altri tempi, quando sui nuovi modelli si voleva recuperare l’investimento fatto in progettazione e ricerca. Ma ora questo schema non funziona più e nei porti del vecchio continente si stipano migliaia di automobili cinesi a basso costo.
I motivi di questa debacle dell’Europa sono vari. In primo luogo l’innovazione procede piuttosto lentamente e in maniera discontinua e non è sostenuta da una significativa digitalizzazione della produzione. In secondo luogo l’approvvigionamento delle materie prime è complicato e manca una strategia politica che ci assicuri catene di rifornimento solide e durature. Poi abbiamo la batosta dell’aumento del costo dell’energia, raddoppiato a causa della guerra russo ucraina. E infine bisogna fare i conti la mancanza di una politica industriale preveggente condivisa dai 27 e un po’ meno avventuristica.
Quali passi dovrebbe fare l’Unione Europea per difendersi da questa sorta di aggressione commerciale? Le barriere protezionistiche possono essere un rimedio temporaneo ma non un duraturo perchè, oltre al fatto che le contromisure di Pechino sarebbero troppo pesanti, l’esasperazione del protezionismo scivola pericolosamente verso scontri politici da evitare. È illusorio pensare che si possa competere con un mostro produttivo come la Cina seguendo rigorosamente la strada del libero mercato. In altre parole deve intervenire l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Bisogna formulare nuove regole che, pur tutelando i principi liberistici, protegga lo sviluppo produttivo dei singoli Paesi. Non sarà facile ma appare necessario farlo per evitare il peggio. Infatti problemi simili si porranno quando l’India seguirà la strada del gigante cinese e anche con essa dovremo fare i conti.
Come ha spiegato Mario Draghi, bisogna percorrere la strada dell’unificazione continentale dei mercati di capitali, senza la quale non si potranno fare investimenti di scala paragonabili a quelli di Usa e Cina. E contemporaneamente bisognerà procedere alla svelta con la digitalizzazione delle procedure industriali che stenta a decollare. E sarà importante creare nuove partnership con Paesi in via di sviluppo che non portino come conseguenza relazioni potenzialmente pericolose per l’economia della Ue. Ciò richiede un dinamismo che può nascere solo in sede politica con una riscrittura delle procedure dell’Unione sia in ambito legislativo che in quello attuativo. Una strada stretta e in salita attende l’Europa, l’alternativa sarebbe un declino augurabilmente non traumatico e l’uscita dal gruppo delle nazioni guida dell’economia planetaria.